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ARTE CINESE: IL FAKE PIÙ SINCERO CHE C’È

La Cina nel mercato globale

Chiara Righi28 Marzo 2020

La sola Cina rappresenta un quinto della popolazione mondiale. Ci commerciamo e ci viaggiamo ma non la conosciamo. Eppure dovremmo, perché la sua mentalità l’ha portata a vincere diverse scommesse improbabili, tra cui quella di aver realizzato il boom economico più veloce e importante di tutto il mercato di arte contemporanea.

Cai Guo-Qiang's Ninth Wave Exhibition at Power Station of Art, Shanghai, China

“Head on” di Cai Guo-Qiang’s. Foto di David Keith Brown.

Negli anni ’90 accade il miracolo: la Cina apre le sue frontiere commerciali. In quel momento, un quinto della popolazione mondiale si affacciava nel grande, impetuoso, mondo del libero mercato. E senza che noi ce ne accorgessimo, iniziava a studiarci.

Noi, al contrario, sembriamo tuttora non aver capito granché dei cinesi: i comportamenti dettati dalla loro cultura, la loro mentalità, la loro scala di valori, sembrano un rebus incomprensibile.

 

Presi dall’euforia di aver guadagnato un nuovo, enorme, mercato ma soprattutto, di aver trovato un paese praticamente privo di tutele sindacali in cui delocalizzare le nostre fabbriche, disponibile a produrre a basso costo qualunque cosa, abbiamo trattato la Cina con eccessiva ingenuità. Una grande opportunità per noi occidentali, e poco per loro, insomma. Come se quell’enorme colosso fosse al nostro servizio, senza pretendere nulla in cambio. Ma i cinesi si sa, è dimostrato da tutti i test sul quoziente intellettivo, sono il popolo più intelligente del mondo.

Un motivo deve pur esserci.

Fang Lijun

Fang Lijun, un’esponente del “realismo cinico“, movimento artistico nato in Cina.

Mentre ci appariva sottomesso e produttivo, il popolo cinese studiava i nostri bisogni, i nostri gusti, le nostre usanze. Ha fatto sì che poco alla volta sostituissimo la nostra manodopera alla loro, che le nostre aziende si spostassero là, di rivenderci le nostre stesse eccellenze in copia fake a un prezzo infinitamente più basso. La Cina, poco alla volta ci ha resi dipendenti da lei.

In questo momento, poterebbe fermarsi la produzione Giapponese, quella Indiana, quella Americana che a noi, in Europa, non cambierebbe più di tanto (forse berremmo meno Coca Cola e giocheremmo meno alla Nintendo)…ma se si ferma la Cina, ci fermiamo tutti.

Sono pochissime le aziende italiane, ed europee, che non abbiano almeno una parte della loro produzione, o della lavorazione delle materie prime, provenienti da lì.

 

Per la Cina, rendere quasi tutto il pianeta dipendente da lei in soli vent’anni è stata una performance complessa. Ha richiesto un livello di sacrificio personale ai singoli cinesi, davvero eccezionale. Un sacrificio che noi non saremmo mai disposti a pagare solo perché la nostra nazione ci chiama a farlo.

Solo la loro specifica cultura permette di realizzare un’impresa così meticolosa: innanzi tutto i cinesi hanno un rispetto per l’autorità centralizzata assoluto e sostanzialmente divinizzato, tanto da sopportare un livello di repressione e controllo che per noi sarebbe intollerabile. In quest’autorità ripongono fiducia, sanno che le sue decisioni porteranno al miglioramento globale del paese.

Poi c’è la loro capacità di concepirsi una collettività: mentre noi siamo fondamentalmente una società individualista, ogni cinese sa che, prima che i suoi interessi personali, ci sono quelli della comunità da cui dipende, c’è il futuro della grande Cina.

human

“Chinese Offspring” di Zhang Dali, 2003. Foto di Margret Leopoldsdottir.

Per noi che siamo cresciuti con favole costruite su un unico protagonista eroe, addestrati a credere nel genio personale e individuale, ci appare difficile concepire come in Cina il soggetto non si senta distinto dagli altri e dall’ambiente circostante ma, anzi, si senta dipendente e parte di esso. Anche grazie alle filosofie millenarie zen e buddista, il singolo si sente indissolubilmente legato agli altri, interconnesso con il tutto. Non a caso la parola cinese rén vuol dire sia “uomo, individuo” sia “insieme di persone” [1].

La cultura cinese ha la caratteristica dell’assoluta permeabilità: si lascia contaminare dal tutto e lo fa suo.  Ne diventa parte, indispensabile e indissolubile. Ciò è successo anche con il mercato estero, di cui ora tiene le redini.

Xing Jun Qin

“Green” di Xing Jun Qin, 2004

L’incredibile performance di conquista dei mercati esteri non ha escluso quello artistico. E ciò appare ancora più stupefacente se si considerano le premesse dell’arte cinese prima degli anni ’90.

La Cina non ha mai vissuto il conflitto tra artista e società, né ha mai concepito l’arte come guida ma, piuttosto, come una componente armonica del sistema, legata alla produzione. Al contrario di ciò che è accaduto in occidente, la figura dell’artista ha sempre coinciso con quella dell’artigiano. Non è mai stato considerato un luminare, un membro speciale della società: l’arte è un’attività legata alla manifattura tradizionale e al settore produttivo.

Non troviamo quindi una differenza tra arte “alta” e arte “bassa”; non a caso, tutt’oggi le gallerie che si occupano di arte contemporanea si trovano a fianco ai grandi centri commerciali o ai negozi d’arredamento.

 

Vai all’articolo “Migrazioni della firma d’autore” per scoprire il ruolo dell’artista in occidente.

 

Gli artisti cinesi hanno sempre convissuto con la censura senza soffrirla particolarmente. Non hanno mai potuto trattare determinati temi, soprattutto riguardanti la sessualità e la politica, e non hanno mai sofferto per questa limitazione: perché impuntarsi quando ce ne sono molti altri che è possibile trattare?

Ovviamente, questo è accaduto perché la Cina è sempre stata un luogo in cui il valore dell’autorità è estremamente rispettato e, il sacrificio individuale a favore di quello collettivo, un valore inviolabile[2].

Wang Quingsong2

 “Happy New Year” di Wang Quingsong. Nell’arte contemporanea le tradizioni cinesi tornano in versione pop e caricaturale.

 

Sono poche le eccezioni di artisti che hanno sentito il bisogno di ribellarsi al sistema istituzionale. Solo negli anni ’80 troviamo i primissimi gruppi artistici che subiscono un’influenza dall’estero e tentano di trasgredire: iniziano a guardare all’occidente e, in particolare, all’America. L’esempio più eclatante sono i pionieri del Gruppo Stars, che attaccano l’ideologia Maoista e rivendicano l’individualità di ogni autore secondo una logica totalmente occidentale. Le loro manifestazioni ed esibizioni vengono censurate e il governo include, tra i valori borghesi sotto attacco, l’erotismo e l’esistenzialismo in arte.

 

Quando però, a soli 10 anni di distanza (negli anni ’90) il mercato si apre, lo scenario cambia improvvisamente. La capacità degli artisti di appropriarsi degli stimoli provenienti dall’estero, sintetizzarli e restituirli al mittente (cioè rivenderli) è incredibile.

Gli artisti cinesi iniziano a rapportarsi direttamente con l’occidente, spesso senza strutture nazionali idonee (gallerie, musei, critici..) che li promuovano. Si adattano immediatamente alla figura dell’artista occidentale, geniale e provocatorio.

Si misurano immediatamente con il mercato più forte, quello americano, proponendo un’arte pragmatica, che testimoni l’invasione delle merci nella vita quotidiana dei cinesi, in chiave estremamente pop.

Yue_Minjun_Statue_of_Liberty

“Statue of Liberty” di Yue Minjun, uno dei primi autori protagonisti del grande successo dell’arte contemporanea cinese. È l’esponente più noto del Realiamo Cinico.

 

Sono le case d’asta, i collezionisti e i galleristi occidentali (come Charles Saatchi) che iniziano a interessarsi a questo fenomeno e lo guidano verso il boom economico.

L’arte contemporanea cinese viene consacrata come fenomeno di massa nell’aprile 2006, quando la casa d’asta Sotheby’s organizza la prima asta totalmente dedicata a questo nuovo mercato a New York. È stata la protagonista della performance economica più importante e veloce del mercato artistico contemporaneo: ci basti pensare che dal 2004 al 2007, le vendite d’arte contemporanea nelle aste Hong Kong hanno subito un incremento dei prezzi di quattordici volte. Dal marzo 2006 all’ottobre 2007, la media dei prezzi per ciascun’opera cinese venduta è passata da sessantamila dollari a oltre centosettantamila, con punte oltre il milione di dollari[3].

 

La velocità con cui l’arte contemporanea cinese ha assunto un’estetica globalizzata e americanizzata, lascia aperto un dubbio legittimo, sollevato anche da Marco Meneguzzo nel libro “Breve storia della globalizzazione in arte”. E se fosse tutto un fenomeno di “export painting”? Cioè, arte progettata per l’esportazione, capace di rispecchiare i nostri gusti, più che “vera” arte cinese.

Questa ipotesi prende piede se pensiamo che alcuni artisti cinesi che hanno un enorme successo all’estero, non sembrano riscuotere grande interesse in patria[4].

Zeng-Fanzhi-The-Last-Supper

Il 5 di ottobre 2013, l’asta Sotheby’s Hong Kong batte per 23,3 milioni di dollari “The Last Supper” (L’ultima Cena) di Zeng Fanzhi, opera d’arte contemporanea cinese dai forti toni politici. Ovviamente ispirata al capolavoro rinascimentale di Leonardo da Vinci, ne sovverte tuttavia la tradizionale iconografia religiosa, trasformando la figura di Gesù e dei suoi Apostoli in membri mascherati del Partito Comunista. Solamente Giuda indossa una cravatta gialla che sta a rappresentare il denaro e le implicazioni del capitalismo occidentale. 

Spesso le opere dei grandi autori contemporanei cinesi utilizzano un’iconografia che fa riferimento ai capolavori occidentali, utilizzando i nostri riferimenti religiosi e iconografici, estranei alla loro cultura di provenienza. Tutto ciò lascia pensare a una ricerca di dialogo con noi ma anche a una forma d’arte pianificata per il nostro mercato più che a un’ingenua ricerca artistica personale. Un’operazione che non sarebbe estranea alla concezione artistica tradizionale cinese, che come già sottolineato, è legata a uno specifico settore produttivo: prima di essere una forma espressiva, l’opera è una merce.

Il nostro gusto estetico è un settore di mercato che loro hanno analizzato e ora sono in grado di sfruttare. E forse, di un mondo in cui le opere vengono acquistate più come investimento bancario che per passione, la loro visione è quella più rappresentativa.

Nella pluralità dell’arte contemporanea cinese, ovviamente, c’è anche la spontaneità di una gioiosa sperimentazione che, dopo anni di repressione, esplode e porta a un imprevedibile sviluppo. A tal proposito, bisogna notare che sono sempre tanti gli artisti che fuggono dalla madre patria per poter godere di un piena libertà espressiva.

Wang Guangyi (1957- ) - 2006 Materialist's Art (Saatchi Gallery, London, England)

“Materialist’s Art” di Wang Guangyi. L’artista è solito prelevare le immagini di propaganda della rivoluzione culturale cinese e sovrapportle a grif e nomi di brand del mondo capitalista, creando una dissonanza visiva dall’effetto ironico.

 

Il rapporto tra arte e denaro continua a scandalizzare noi ma non ha mai scandalizzato i cinesi. Laggiù, i collezionisti comprano opere per amore dell’arte, ma anche, e sopratutto, come investimento.

Il fatto che l’arte sia un business, una speculazione e uno status symbol, non è un concetto tabù come in Europa. Lo stesso Uli Sigg, uno dei più importanti collezionisti europei di arte contemporanea cinese, afferma apertamente che: <In Cina nessuno si fa problemi a parlare di arte e denaro, mentre noi abbiamo ancora questa dicotomia.[5]palesando la trasparenza del materialismo cinese.

 

Così, per quanto strano possa sembrare, è proprio l’arte proveniente dalla Repubblica Popolare Cinese, guidata dal Partito Comunista, ad essere il migliore specchio della società liberale e capitalista. Non a caso è caratterizzata da spettacolarità, lucentezza, megalomania, voglia di shockare e dalle nuove tecnologie. Ma sopratutto è parossistica nel suo modo di decantare la disumanizzazione meccanica della globalizzazione a cui ormai tutti, cinesi inclusi, siamo assoggettati.

 

 

Se vuoi scoprire la ricerca artistica dei diversi autori vai all’articolo “I 15 artisti cinesi che devi conoscere“.

 

 

 

 

[1] cit. Linda Confalonieri,  We-self e autostima collettiva, articolo dell’11/12/2015, https://www.stateofmind.it/2015/12/we-self-autostima-collettiva/

[2]Cit. Marco Meneguzzo, “Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)”, ed. Johan&Levi, 2012, Milano, pag. 86

[3] Cit. Marco Meneguzzo, “Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)”, ed. Johan&Levi, 2012, Milano, pag. 87

[4] Cit. Marco Meneguzzo, “Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze)”, ed. Johan&Levi, 2012, Milano, pag. 101

[5] Uli Sigg, intervista di Silvia Anna Barillà per Il Sole 24 Ore, “Il mercato dell’arte cinese spiegato dal collezionista Uli Sigg”, https://www.ilsole24ore.com/art/il-mercato-dell-arte-cinese-spiegato-collezionista-uli-sigg-AENOVniF


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Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.
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