Se pensi che i manga siano solo fumetti o prodotti d’intrattenimento, non conosci bene la società giapponese.
In questo articolo vedremo perché laggiù siano manifestazioni culturali davvero significative. Ma tanto tanto. Così tanto da portare al dirottamento di un aereo al grido di “Siamo tutti Ashita no Joe”.
C’è chi lì definisce i veri ereditieri della mitologia greca[1], grazie ai loro eroi borderline e alle avventure epiche dal tono leggendario. Spesso i manga sono capolavori di narrativa, che affrontano in maniera introspettiva e realistica temi come il dolore, la guerra, la morte e la scoperta dei sentimenti, dotati di un’immensa apertura mentale in cui trovano il posto anche le devianze e l’ambiguità sessuale.
Ma in Giappone non sono solo questo. Le loro trame scaturiscono da ferite storiche e problematiche sociali irrisolte, che sono affrontate di petto. Cerchiamo di capire come in tre punti.
La genesi è atomica
I manga portano un linguaggio nuovo, emotivo, viscerale come la disperazione.
Se pensiamo ai primi Shōnen (manga per ragazzi), ci troviamo quasi sempre davanti a storie apocalittiche, in cui una minaccia incombe sul Giappone o sull’intero pianeta. Per fortuna, appaiono sempre scienziati geniali in grado di creare robot o eroi geneticamente modificati che riescono a contrastare la minaccia. Ovviamente, l’apparizione continua di funghi atomici ed esplosioni che radono al suolo intere città non è casuale.
Se ci chiediamo perché, spesso, i fumetti giapponesi abbiano toni così drammatici, ci conviene dare un’occhiata alle loro origini.
Immagine dell’anime Mazinga, tratto dall’ononimo manga.
I manga nascono nella seconda età degli anni ’40, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, un fatto storico che si è concluso in una maniera particolarmente tragica per il Giapponese. Nel 1945 l’esercito americano sganciò due bombe atomiche sulle città di Hiroshima e Nagasaki, radendole al suolo e lasciando un enorme territorio devastato. Il numero di vittime dirette sfiora i 200.000 di civili morti in pochi istanti, a cui vanno sommate centinaia di persone decedute successivamente, in maniera ancor più atroce, a causa dell’esposizione alle radiazioni. Inoltre, gli Americani occuparono il paese fino al 1952 con la velata minaccia di un nuovo bombardamento, rafforzando il clima apocalittico.
Tutto ciò si riflesse nella cultura nipponica, che assimilò una profonda insicurezza, destinata a manifestarsi anche nell’immaginario pop.
Creare robot ed eroi, come Goldrake e Mazinga, in grado di controllare l’energia atomica e a proteggere le persone, ha aiutato la popolazione (soprattutto i più giovani) a metabolizzare l’orrore dei bombardamenti. Inoltre, questi manga mostrano una grande fiducia legata allo sviluppo tecnologico, che mai come in Giappone in quegli anni riuscì a svilupparsi.
Secondo il fumettista e traduttore studioso della cultura nipponica Vincenzo Filosa, gli attuali eroi dei manga, costretti a combattere contro minacce estreme che incombono sulle proprie terre, non esisterebbero senza quelle bombe atomiche.
Il fumettista spiega che l’idea di fine del mondo è radicata nell’inconscio collettivo occidentale sin dall’inizio del cristianesimo ma in Giappone, prima del 1945, non esisteva. Il costante senso di un’incombente minaccia e il clima apocalittico, erano estranei alla cultura giapponese, legata alla religione animista del Paese, lo shintoismo, in cui non esiste il concetto di fine.
Furono gli eventi traumatici legati alla seconda guerra mondiale a sconvolgere in maniera profonda la mentalità nipponica, causando una frattura insanabile. Da lì hanno iniziato a generarsi i mostri, le paure e le insicurezze più profonde. La cultura pop dei manga ha riflesso questo stato mentale creando Goldrake, Mazinga, Godzilla (mostro risvegliato e potenziato da armi nucleari) e Kenshiro che vive in un futuro post atomico[2]. Così come tutt’oggi continua a produrre gli scenari desolati e devastati dei videogiochi come Fragile Dream e le distopie steampunk di Attack on Titan.
C’è un altro aspetto di cui bisogna tenere conto.
Il nuovo assestamento della società imposto dall’occupazione americana, causa la perdita di riferimenti ideologici nella popolazione giapponese. Nel 1946, gli occupanti statunitensi obbligano l’imperatore a dichiarare alla nazione che la sua natura è umana e non divina, sottraendogli tutti i poteri politici e gestionali. Se fino a poco prima la popolazione giapponese aveva vissuto in funzione di qualsiasi capriccio del dio-imperatore e nella convinzione di discendere loro stessi da una stirpe divina, ora si ritrovava senza una guida e un’identità.
È in quel vuoto culturale che s’insinuano gli eroi dei manga, che diventano un punto di riferimento morale ed emotivo delle nuove generazioni. Agli occhi dei giovani, appaiono come gli unici modelli presenti sul territorio, i soli in grado di raccogliere i cocci della cultura passata e plasmarla a nuova forma.
Tutto ciò è dimostrato da un episodio emblematico. Il 31 marzo del ’70, un gruppo di terroristi militanti nell’Armata Rossa Giapponese, dirottò un volo della Japan Airlines, facendolo atterrare in Corea del Nord. Il loro grido e la loro firma di battaglia era “Siamo tutti Ashita no Joe”. Chi è Ashita no Joe? Ovviamente, è il protagonista del manga Rocky Joe, cioè il fumetto che racconta la storia di un pugile.
Rocky Joe è un manga che descrive la trasformazione sociale avvenuta in quegli anni in Giappone, narrando le storie degli umili che non erano stati baciati dal boom economico del paese, ma anzi, erano ancora alle prese con i traumi postbellici, circondati dall’indifferenza collettiva.
Joe, icona del manga Rocky Joe scritto da Asao Takamori e disegnato da Tetsuya Chiba.
Per quanto la storia di Rocky Joe fosse coinvolgente, il fatto che l’eroe di un fumetto diventasse addirittura la guida morale e politica di un gruppo terrorista ha molto da raccontarci. Per capirci, è come se il motto delle Brigate Rosse fosse stato “Siamo tutti Corto Maltese” – un’eventualità che in Italia non si sarebbe mai potuta verificare!
Invece in Giappone sì, proprio per quella rottura storica e culturale profonda che la seconda guerra mondiale aveva generato. In quel vuoto tutto da riempire, il protagonista di un fumetto è potuto diventare la guida esistenziale, filosofica e politica di una o più persone. Tra l’altro l’ha fatto in modo molto trasversale, tant’è che Rocky Joe non era amato solo dai militanti di sinistra ma anche da quelli di destra e vedeva tra i suoi più grandi fan lo scrittore nazionalista Yukio Mishima.
Un luogo in cui nascondersi
Essere giovani in Giappone non è semplice. Tutt’ora, i ragazzi sono soggetti a pressioni continue e obbligati a vivere in un clima super competitivo.
L’istituzione scolastica è divisa in 5 cicli e tra uno e l’altro ci sono dei pesantissimi esami d’ammissione, tant’è che giornalmente al fine delle lezioni mattutine, tantissimi studenti frequentano i “corsi supplementari” (in pratica sono corsi di recupero e di preparazione agli esami), che possono durare anche fino alle 11 di sera!
L’eccessiva competizione crea diffusi fenomeni di bullismo ed emarginazione nei confronti di chi prende i voti più bassi e non riesce a stare al passo degli altri. Di conseguenza, i ragazzi più insicuri, sensibili e didatticamente fragili, sono penalizzati e costretti a umiliazioni continue. Come se non bastasse, i giapponesi sono molto chiusi e tendono a tenersi tutto dentro, senza condividere il loro vissuto né supportarsi a vicenda.
È chiaro che per molti ragazzi la voglia di evadere da questo inferno sociale sia alta.
Sangatsu no lion di Chika Umino racconta la storia di Rei, giovane scacchista senza amici né genitori, che, tormentato dai sensi di colpa, conduce una vita sempre più isolata.
Negli anni ’80 si inizia a parlare di otaku, una sottocultura che si diffonde a macchia d’olio tra i giovani giapponesi. Sono ragazzi che nutrono una passione smisurata per manga, anime e di tutto il merchandising ad essi collegato, tanto da essere considerati addirittura ossessivi e maniacali. La parola “otaku” significa “a casa” o “la sua casa”. È un appellativo che è stato affibbiato in maniera derisoria a questi giovani che sembravano trovare una dimora, cioè l’unico luogo in cui sentirsi a proprio agio, solo nel mondo di fantasia legata alle storie manga[3].
Gli otaku apparivano riluttanti nei confronti delle occasioni sociali, si dimostravano introversi e socialmente isolati. Erano soliti passare molte ore chiusi nelle proprie camere a leggere, aggiornarsi e comunicare con gli amici a distanza a proposito delle uscite di manga e anime.
Si tratta di una reclusione volontaria e un tentativo di evasione dalla propria esistenza attraverso fumetti e cartoni animati. Questi ragazzi rinunciano alla propria vita per vivere quella dei propri eroi, che ritengono più appassionante e meritevole di attenzioni.
Quello degli otaku, è il mondo da cui ha preso vita, anni dopo, il fenomeno degli Hikikomori (ragazzi che per interi anni non escono da casa e il meno possibile dalla propria camera).
Net-juu no susume di di Rin Kokuyo. La protagonista Morioka, vive l’abbandono della società. Ha trent’anni, è single e si è appena licenziata dal suo lavoro di impiegata diventando, per scelta, una NEET. Passa le sue giornate giocando online, dove trova consolazione e supporto dagli altri utenti.
Il disagio che gli otaku provano nei riguardi della società viene affrontato attraverso l’evasione in un mondo fantastico, a cui dedicano tutto il tempo possibile.
Non c’è da stupirsi che i manga siano diventati il loro rifugio. Le storie narrate affrontano sempre di petto tematiche quali l’isolamento, la marginalità e l’inadeguatezza. Tutte le incertezze che affliggono la vita degli adolescenti vengono snocciolate dagli Shōjo e degli Shōnen, ma anche le problematiche più adulte, come la desolazione di una casalinga che affoga nella noia e le distopie politiche, trovano posto negli Josei e Seinen (manga dedicati agli adulti). Personalmente però, non credo che il motivo di reclusione nel mondo manga sia tanto legato a una questione di “tematiche”, quanto di linguaggio.
Nel linguaggio manga trionfa una passionalità irrazionale, che si contrappone ai principi logici e alla concretezza del mondo adulto. Alle volte, l’indifferenza verso la razionalità, converte le trame in un circuito di emotività pura, distintissimo dalla piattezza e alla rigidità delle regole che gestiscono la vita dei giovani giapponesi.
Un tale coinvolgimento passionale è possibile grazie al codice comunicativo messo a punto dai fumettisti giapponesi. Infatti, quello che distingue il manga da ogni altro genere è la sua capacità di creare un coinvolgimento emotivo immediato con il lettore. Cercano principalmente di “far sentire” e di stabilire un collegamento empatico che sia il più diretto possibile, in modo da condurci nel cuore del personaggio.
Tutto nello stile grafico è mirato a trasmettere apertamente le sensazioni dei personaggi: le espressioni esasperate, la gestualità marcata, i numerosi simboli e le onomatopee. Entra in gioco un linguaggio cinematografico, che ci cala nella scena come se fossimo sempre all’interno della situazione a fianco del protagonista e mai come osservatori esterni.
Al fine di mostrarci lo stato psicologico del protagonista, gli autori usano con grande libertà anche la struttura delle vignette e delle impaginazioni, che smettono di imbrigliare rigidamente le immagini in formati standard ma si aprono, si spezzano all’improvviso e si fondono tra di loro.
Nei fumetti giapponesi capita spesso che i pensieri vaghino liberamente per la tavola, senza che ne sia delineato un “contenitore”. Questo equivale, a detta di Takahashi, a una narrazione in prima persona, perché ci si trova a faccia a faccia con i pensieri del protagonista e si è coinvolti in quello che si potrebbe definire un flusso di coscienza[4].
Per un giovane giapponese, abituato all’incomunicabilità e a vivere in silenzio le proprie disgrazie, poter entrare nella mente di un personaggio estraneo da sé, ritrovare il suo stesso senso di smarrimento, diventa un momento di condivisione importante.
One Piece di Eiichirō Oda. Nei manga la forma delle vignette è usata per scandire il tempo: quelle verticali comunicano una successione rapida degli eventi, quelle orizzontali scandiscono i tempi più lunghi; l’uso di linee oblique serve invece a spezzare un momento e dare pathos.
La prima cosa che balza agli occhi di tutti gli studiosi del genere è che, rispetto alle graphic novel occidentali, il manga contiene molte meno parole degli altri fumetti e molte più immagini. I disegni, infatti, possono raccontarci qualcosa per cui servirebbero infinite pagine: tutte le variazioni dello stato d’animo. Sono le espressioni del volto, la gestualità, gli occhi scintillanti, che ci svelano la psicologia più intima e segreta dei personaggi. Le immagini raccontano l’invisibile, quello che è chiuso nel loro cuore e che non si dovrebbe vedere.
Confrontando i fumetti giapponesi con quelli europei e americani, si nota anche come i primi diano maggiore risalto ai piccoli gesti e all’importanza di ogni attimo che trascorre, con sequenze che analizzano momento per momento. Come riassume Frederik Schodt, un manga può usare decine di pagine per raccontare ciò che in un fumetto americano verrebbe spiegato in una sola[5].
Tutto ciò ci fa capire quanto, il manga, ci tenga a farci vivere, non tanto l’avventura in sé, quanto il viaggio emotivo e psicologico dei personaggi.
A fronte di tutto ciò, è ovvio che gli otaku vi abbiano trovato un mondo intimo e segreto dove rifugiarsi. Un mondo emozionante e intenso, decisamente più coinvolgente e rassicurante rispetto alla rigida quotidianità che si trovano ad affrontare. Chi può resistere alla tentazione di vivere per un po’ un’esistenza eroica, trovare grandi amori e team di sbandati con i quali spaccare il mondo?
Soprattutto se la tua realtà è opposta, piena di ansia, umiliazione e impossibilità di condividere le proprie emozioni.
Manga e Girl Power
Magical Girl Spec-Ops Asuka scritto da Makoto Fukami e illustrato da Seigo Tokiya.
I manga e gli anime sono stati un mezzo di comunicazione e un veicolo di cambiamento sociale anche nell’ambito dell’emancipazione femminile giapponese.
Parlando di ciò, dobbiamo sempre tenere presente che il Giappone NON E’ L’ITALIA. I diritti delle donne sono ancora molto arretrati, le famiglie sono di stampo apertamente patriarcale e, tuttora, molte cariche istituzionali non possono essere ricoperte da persone di genere femminile. Per questo motivo, quello che per noi in Italia può sembrare un evento da nulla, ad esempio una storia di una ragazza che non sia una semplice avventura amorosa che diventa mainstream, è già un passo rilevante.
Anche su questo fronte i manga hanno dato un buon contributo. Già il loro linguaggio è un codice comunicativo estremamente femminile, capace di parlare all’intimità e all’emotività delle persone.
Nei manga per ragazze, gli Shōjo, la capacità di creare un rapporto emotivo con i personaggi è esasperata al massimo. Qui l’esagerazione, lo squilibrio a favore del sentimento, riescono per la prima volta nella storia del fumetto a fornire un linguaggio super femminile, in cui i valori della logica e della concretezza sono ininfluenti. Si viene sommersi da una tempesta emotiva che non teme di sfiorare l’irrazionalità ma è essa stessa l’elemento di coesione della trama.
Yagate kimi ni naru di Nio Nakatani.
Negli Shōjo, i tagli delle immagini si fanno ancora più irregolari, si sovrappongono, si confondono tra vignette chiuse e aperte. Lo spazio bianco tra una scena e l’altra scompare e le parole vagano per la pagina articolandosi in una maniera vaga e frammentaria, lasciandoci fluttuare in uno spazio aperto di pensieri ed emozioni senza filtro.
Gli occhi delle protagoniste sono enormi in quanto specchio dell’anima, sono la fonte di comunicazione emotiva diretta tra i protagonisti e il lettore. Inoltre il caos sentimentale è egualitario, accogliente e genera un’apertura culturale verso tutte le forme amorose. Ne è un indice il fatto che esistano i sottogeneri specifici come gli shojo-ai, che raccontano storie di amori tra ragazze, e gli shonen-ai, nei quali sono narrate le relazioni sentimentali tra ragazzi omosessuali.
La fortuna degli Shōjo è cominciata negli anni ’50. All’inizio gli autori erano uomini ma presto ci si rese conto di quanto le donne fossero più idonee a raccontare questo genere di storie, per cui già a metà degli anni ’60 la situazione si era completamente invertita, tanto che oggi ci sono addirittura disegnatori costretti ad assumere uno pseudonimo femminile per essere accettati dalle lettrici[6].
Una narrativa delle donne e per le donne, una sacca culturale nata a ridosso di una società ancora molto legata ai valori maschili in cui iniziano a emergere nuove figure di riferimento: le eroine.
Nana di da Ai Yazawa. Spesso ci troviamo davanti a sfondi che scompaiono completamente, rendendoci l’impressione di fluttuare in un momento fuori dal tempo. Infatti, nei momenti di più forte emozione tendiamo a essere immersi nei nostri pensieri, a chiuderci in noi stessi e a non prestare attenzione a cosa abbiamo attorno.
A cavallo tra gli anni ‘80 e i ’90 qualcosa succede all’interno di questi fumetti, un evento che ci comunica come il ruolo della donna in Giappone stesse drasticamente cambiando: spopola il principale sottogenere degli Shōjo, chiamato Mahō shōjo (ragazza magica). Anche detto Majokko (streghetta), è un tipo di manga che unisce i temi romantici dello Shōjo alla fantascienza: in breve, le belle protagoniste sono dotate anche di poteri magici.
Di questo genere fanno parte alcuni cult che hanno spopolato anche in Italia nella versione anime, come Bia la sfida della magia, Sailor Moon, Rancie la strega, Creamy, Magica Emi, Sakura, Sugar Sugar Rune e Magica Doremi.
Nei Majokko il significato politico e sociale legato alle lotte femministe è più marcato. Fino all’arrivo di questi manga, l’immagine della strega ha sempre rappresentato una minaccia, come se una donna dotata di potere non potesse che nuocere. Ci basti pensare anche al nostro immaginario occidentale, come alle streghe Disney dello stesso periodo (ad esempio quella di Biancaneve, la Sirenetta e La Bella addormentata nel bosco), per non citare le numerose donne reali bruciate sul rogo nel corso della storia perché accusate di stregoneria.
Per la prima volta i manga offrono una visione opposta di questo personaggio, che invece di essere brutto, vecchio e malefico diventa giovane, seducente e incredibilmente benefico per il mondo intero. Le protagoniste, infatti, combattono quasi sempre per cause utili all’intera umanità, come l’amore, la pace e la salvezza di un mondo minacciato dal male.
Le streghette di Madoka Magica.
I Mahō Shōjo appaiono in Giappone negli anni ’60 ma vedono il loro pieno sviluppo solo negli anni ‘80-’90, esattamente il periodo in cui le donne giapponesi iniziano a intravvedere la possibilità di emanciparsi: entrano in politica, si affermano nel campo della musica pop e ottengono una legge sulle pari opportunità sul lavoro[7].
Le protagoniste dei manga si fanno interpreti del fenomeno culturale che negli anni ‘90 fu definito Girl Power. Infatti, sono esempi di donne forti e determinate che, anche in assenza dei loro poteri magici, sanno praticare acrobazie e arti marziali. In alcuni casi, i loro poteri si manifestano solo per un periodo momentaneo e funzionale al loro percorso di crescita, ma infine le protagoniste imparano a contare solo sulle proprie forze senza dover più ricorrere alla magia.
Insomma, anche in questo frangente i manga sono in prima linea. Si riconfermano un’importante manifestazione culturale, in grado di veicolare messaggi sociali e valori esistenziali. Utili per la società giapponese e molto interessanti anche per noi, che non smettiamo mai di stupirci della profondità che si nasconde dentro quello che sembra un semplice fumetto.
Se vuoi rimanere in tema Giappone e vuoi scoprire come i manga e gli anime siano diventati la poetica di una grande artista, vai all’articolo Murakami e la profondità della pittura piatta.
Se invece vuoi saperne di più sui risvolti che il fenomeno manga ha avuto in l’Italia, vai all’articolo Cortocircuiti degli anime in Italia.
Se vuoi scoprire di più sul repertorio artistico giapponese, vai all’articolo Cinema giapponese e filtro dell’Ovest.
[1] Barbara Herny il 18 settembre 2020, durante il suo intervento al Festival della Filosofia di Modena, ha affermato che la mitologia oggi vive nella cultura pop, riferendosi in particolare proprio ai manga giapponesi.
[2] Vincenzo Filosa, intervistadi Jacopo Bernardini, 7 Aprile 2018 per Linkiesta, https://www.linkiesta.it/2018/04/goldrake-e-gli-altri-manga-apocalittici-sono-figli-della-bomba-atomica/
[3] Lentamente, nel corso degli anni ’90, si è affermata la visione di alcuni giornalisti e antropologi che vedevano negli Otaku una manifestazione culturale e hanno cercato di togliere l’accettazione negativa con cui erano stati stigmatizzati. Oggi, la sottocultura Otaku ha visto un ampliamento d’interessi verso eventi, luoghi d’incontro e, addirittura, interi quartieri di Tokyo dedicati ai loro interessi. L’ambiente Otaku oggi giorno conta numerose sottocategorie e si è avvicinato molto alla cultura nerd e geek. La passione si è estesa verso la pratica del Cosplay, diversi tipi di collezionismo, fanatismo verso alcuni Idol del mondo dello spettacolo (che rappresentano il ragazzo o la ragazza ideale), musica, libri, film, abbigliamento e videogiochi legati ai manga.
[4] TAKAHASHI, “Opening the Closed World of Shōjo Manga.”, Sharpe, 2008, cit., p. 127.
[5] Frederik L.SCHODT, Dreamland Japan: writings on modern manga, Barkeley, Stone Bridge Press, 1996, p. 25
[6] Frederik L.SCHODT, Manga! Manga! – The Wold of Japanese Cpmics, ed. Kodansha International, Tokyo, 1983.
[7] Cit. curatela della mostra “Anime Manga. Storie di maghette, calciatori e robottoni” a cura di Francesca Fontana ed Enrico Valbonesi.
due note sull'autore di questo articolo / intanto commenta e seguici sui social ...
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.