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CINEMA GIAPPONESE E FILTRO DELL’OVEST

Uno stereotipo "pop"

Susanna Luppi12 Gennaio 2021

Il cinema giapponese è vasto e variegato. Spesso è però “sintetizzato” in un concentrato di luoghi comuni legati alle tradizioni orientali. La tradizione è davvero un punto cardine o si tratta di un’illusione filtrata dallo sguardo occidentale?

 

Ad oggi, si può trovare un boccone di cultura “pop” giapponese ad ogni angolo di strada: dalle numerose fiere del fumetto – con collaterale fenomeno cosplay – al rinnovato interesse per pratiche marziali e culinarie. Chi può dire di non aver mai assaggiato un piatto di sushi? E chi non ha mai visto una “bustina” di Dragon Ball all’edicola? Davvero pochi. 

Allo stesso modo, è difficile trovare qualcuno che non abbia mai visto un film di Miyazaki – o, quantomeno, che non lo conosca “di nome”.

Questa sensazione “Japan-friendly” rischia però di assuefare la maggior parte degli occidentali, limitandoli a galleggiare estasiati sul variopinto specchio d’acqua nipponico; uno specchio, che non può esimersi dal riflettere il suo ospite, contenendo così anche i suoi caratteri specifici. Proviamo allora a tuffarci un po’ più in profondità, avvicinando la dimensione cinema e tentando di comprenderla.

 

 

Scoperta del cinema giapponese

Per tutta la prima metà del XX secolo le due realtà, occidentale e orientale, hanno agito in autonomia senza sentire l’esigenza di aprire la porta che le separava. 

Da una parte erano messi in scena i nuovi sconvolgimenti culturali – Nosferatu (Murnau, 1922) e il paradosso heimlich-unheimlich  e pontificate le tradizioni in tono patriottico – il cinema di Griffith negli States. Dall’altra, si passa da origini molto legate alla matrice teatrale – adattamenti di celebri drammi kabuki come Momijigaari (Tsukemichi Shibata, 1899) o l’invenzione dei ransa-geki (drammi a catena) –  ad un’autentica “età dell’oro” tra anni ‘20 e ‘30 – autori come Ozu, Mizoguchi e Naruse hanno riproposto opere letterarie in ambientazioni contemporanee. Durante il periodo bellico, i regimi totalitari hanno poi patrocinato film di propaganda in entrambe le aree.

Ma se l’industria cinematografica orientale già conosceva e importava prodotti hollywoodiani, non si può dire che il pubblico occidentale avesse consapevolezza di quest’altra realtà e della porta che le separava. Di fatto, la chiave nella toppa l’ha girata Akira Kurosawa con il film Rashōmon(1950), accaparrandosi il Leone d’oro a Venezia e il premio Oscar come miglior film straniero.

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Inquadratura di Rashōmon (1950), film di Akira Kurosawa

A “bucare” il pubblico di massa sono però i kaijū eiga (film di mostri): inaugurati da Gojira (Godzilla, 1954) di Honda Hishirō questi film iniziano ad essere diffusi nelle sale cinematografiche, soprattutto americane. Si inaugura così un vero e proprio filone, contraddistinto da immaginari apocalittici e ascesa tecnologica – come non legarli alle recenti catastrofi atomiche – che pare costituire il primo “filtro”, molto sfumato, adottato dall’occhio occidentale nei confronti del cinema nipponico. Ed ecco svettare un cinema degli eccessi, distorto e folle che ha srotolato il “red carpet” verso i futuri stereotipi.

Gojira (1954)

Inquadratura di Gojira (1954) di Honda Hishirō

Stando al critico Giacomo Calorio[1], sono due i momenti che hanno inciso maggiormente  sull’immaginario dell’ovest. Il primo si colloca tra gli anni ’50 e ’60 ed è riconducibile al successo “festivaliero” di autori come Inagaki Hiroshi, Ichikawa Kon, Akira Kurosawa, Mizoguchi Kenji. Specialmente gli ultimi due si sono trasformati in esempi di “giapponesità” veicolando l’idea di un cinema nipponico legato in modo indissolubile alla tradizione: sagome di samurai, geisha, maschere nō, ventagli, kimono, ritagliate e appiccicate in un contesto di lealtà feudale e profonda spiritualità.

Muhomatsu No Issho

Inquadratura di Muhomatsu No Issho (L’uomeo del riksciò, 1958) film di Inagaki Hiroshi

Il secondo si è diramato dagli anni ’70 e corrisponde alla riscoperta del cinema d’autore. In particolare, Yasujirō Ozu è stato “eletto” portavoce della tradizione cinematografica giapponese – visione in pieno contrasto con altre che riconoscono alle sue opere spunti di modernità e universalità.

Dopo tutte queste connotazioni “forti” l’Occidente nasconde temporaneamente sotto il tappeto la questione, rispolverandola verso metà anni ’90 con l’entrata in scena di Kitano Takeshi. Il cinema di Kitano introduce un tema caro al post-moderno di fine millennio: l’interrogarsi sulla propria identità culturale con una vena di distacco ironico e uno spirito dissacratorio. Le vicende si snodano in ambienti surreali e iperrealisti, cifra che può solo confermare la funzione di “ponte” tra “cultura giapponese alta e bassa” esercitata dalle opere di Kitano. Per contro, la continua presenza di topos nipponici divenuti stereotipo altro non fa che “lucidare la lente” attraverso cui guarda l’occhio occidentale.

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Inquadratura tratta da L”estate di Kikujiro (1999) di Kitano Takeshi

Altro fenomeno che si è fatto strada dai primi anni ’90 è il J-Horror. Si tratta per lo più di film locali low-budget indirizzati all’home-video ed alla televisione. Tra i registi più noti figurano Nakata Hideo, Kurosawa Kyoshi e Tsuruta Norio.

Parallelamente, l’Occidente alza il velo di Maya sul cinema d’animazione orientale scoprendo Hayao Miyazaki, autore che nei primi anni del 2000 ha vinto a mani basse l’Orso d’oro (2002) ed il premio Oscar (2003) per La città incantata, ottenendo poi il Leone d’oro alla carriera durante la 62° Biennale di Venezia (2005).

 

 

Il più giapponese dei registi giapponesi?

Stiamo parlando di Yasujirō Ozu autore che, nel tempo, ha visto cucirsi addosso l’appellativo di “il più giapponese tra i registi giapponesi”; status per lo più edificato dallo sguardo occidentale che ha riconosciuto nella sua poetica i tratti emblematici della tradizione nipponica.

Senza scivolare nella querelle “luogo comune o verità?” (discorso troppo esteso e impervio per questa sede), vediamo che Ozu riesce a tradurre in linguaggio cinematografico alcuni concetti filosofici molto cari giappone, come  mono no aware,  kire e karesansui.

Mono no aware

Mono no aware può essere tradotto in “il pathos delle cose”, ed è uno stato d’animo complesso e malinconico. Esso si manifesta davanti alla natura o alle vicende umane, nel momento in cui si raggiunge la consapevolezza che ogni cosa è transitoria, effimera.

La fioritura dei ciliegi è un emblema tipico del mono no aware: questi fiori, infatti, durano poco (circa una settimana) ed il loro valore sta nell’essere contemplati consapevolmente alla loro caduca bellezza.

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Fioritura dei ciliegi a Kyoto

 

Anche il cinema di Ozu è considerato un’espressione del mono no aware: questo poiché i personaggi dei suoi film hanno spesso un’evoluzione che li porta a scontrarsi, poi accettare, che ogni cosa è transitoria e il cambiamento ineluttabile.

Peculiarità: il mono no aware, oltre che dai personaggi, traspare anche dagli oggetti. Ozu mostra letteralmente “il pathos delle cose”, grazie ad inquadrature fisse e all’utilizzo del sonoro. Come spiega il critico cinematografico Bruno Fornara:

“Il guardare del cinema di Ozu è la rappresentazione di quella consapevolezza che ci coglie nell’accettare il mondo e l’esistenza nel loro essere transitori. Un vaso posto davanti a una finestra illuminata e percorsa dall’ombra di un ramo indica questo enigma ultimo. Bastano un vaso, una mela e un guardare calmo e fisso (e l’ascoltare il russare di un uomo) per raggiungere e indicare il fondo della superficie.”

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Inquadratura del film Tarda Primavera (1949) di Yasujirō Ozu 

Kire

Nell’estetica giapponese troviamo spesso il concetto di kire (taglio). Storicamente, kire è una metafora utilizzata nella Scuola Rinzai del Buddhismo Zen e ha caratterizzato gli insegnamenti del maestro Hakuin (1686-1769). Per Hakuin “l’arte di vedere nella propria natura” può giungere a compimento solo se si è “tagliata la radice della vita”.

Esemplificativa la citazione: “devi essere pronto a mollare la presa quando sei appeso a un picco su un precipizio, a morire e tornare di nuovo alla vita” (Hakuin 1971:133-135).

Il kire emerge anche nella ikebana (fiori viventi), ovvero l’arte di disporre i fiori. Questa pratica si avvale del taglio in quanto “recisione delle radici”; fatto che, a prima vista, pare porsi in paradosso con il suo stesso significato di “fiori viventi”. Interessante la visione di Nishitani Keiji, per cui kire è il processo che “taglia fuori” la vita biologica del fiore per consentirgli di esprimere la sua vera natura; perdendo le radici ogni luogo diverrà “la sua casa” come accade ad ogni altro “essere” in questo mondo di “impermanenza” (Nishitani Keiji 1995: 23-7).

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Esempio di ikebana

Karesansui

Karesansui significa “paesaggio secco” ed è una forma di giardino molto comune in Giappone. A differenza della concezione occidentale di “paesaggio” o “giardino”,inteso come spazi fruibile e concreto, il karesansui è un luogo dedicato alla meditazione. Questo giardino vede la sua natura legata al kire poiché prende forma attraverso la propria scissione dalla natura, è “tagliato fuori”.

Il karesansui più noto si trova a Kyoto ed è il giardino del Tempio Ryoanji. Esso è composto da 15 rocce disposte in cinque gruppi e posizionate su un piano di ghiaia bianca, rastrellata. Un muro basso ne delimita gli spazi e lo “taglia fuori” dalla natura circostante: si crea così il contrasto tra movimento e immobilità. Un movimento che, all’apparenza si può scorgere anche all’interno del karesansui; ma si tratta solo di movimento illusorio, poiché generato dall’oscillare di ombre di rami (o dal passaggio di nuvole e volatili) sulla ghiaia immobile.

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Karesansui del Tempio Ryoanji, Kyoto

Ozu riunisce kire e karesansui in una celebre scena del film Tarda Primavera (1949). Stilisticamente, è composta da otto inquadrature – di cui sette mostrano le rocce di Ryoanji – separate e unite da sette tagli. Iniziando con due inquadrature di pietre, Ozu passa ai due protagonisti seduti su una piattaforma di legno che dà sul karesansui. Posa e abiti scuri li delineano proprio come “rocce”. Restando immoti, essi parlano dei figli e del momento in cui vanno via da casa per cominciare una nuova vita,richiamando così la condizione di impermanenza legata al kire, contemplando nel karesansui.

Tarda Primavera Ozu

Inquadratura del film Tarda Primavera (1949) di Yasujirō Ozu

 

Cosa pensare dunque? Purtroppo, la faccenda resta aperta e piuttosto annodata ed è difficile poter trarre conclusioni univoche. Certo è che, stereotipato o no, il cinema giapponese offre un’infinità di spunti e la miglior cosa che possiamo fare noi discendenti di Hollywood è “pulire ben le lenti”, osservare con attenzione e – come ci ha insegnato il mono no aware – prendere atto della transitorietà della questione.

 

 

[1] Giacomo Calorio, To the Digital Observer. Il cinema giapponese contemporaneo attraverso il monitor, Mimesis, Milano-Udine, 2020

 

 

Restando in tema Giappone:

se vuoi scoprire come è nato il medium pop per eccellenza del Giappone, vai all’articolo Manga e rivoluzione culturale;

per approfondire come i manga e gli anime siano diventati la poetica di una grande artista, vai all’articolo Murakami e la profondità della pittura piatta;

Se invece vuoi saperne di più sui risvolti che il fenomeno manga ha avuto in l’Italia, vai all’articolo Cortocircuiti degli anime in Italia.

 

 


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Susanna
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