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MURAKAMI E LA PROFONDITA’ DELLA PITTURA PIATTA

Il senso dell'arte Superflat

Chiara Righi7 Gennaio 2021

Se il 9 giugno del 1946 a Kokura ci fosse stato il sole, oggi nessuno conoscerebbe Takashi Murakami né la pittura Superflat.

Cresciuto nella città presa di mira dagli americani per il lancio della prima bomba atomica, l’artista ha vissuto in un clima catastrofico e apocalittico, filtrato ed edulcorato della cultura pop dei manga e degli anime. Se i fumetti si erano fatti carico di guidare una nazione verso l’accettazione e la riconciliazione storica, ora toccava a Murakami rendergli omaggio.    

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Chiho Aoshima, “Divine gas”, 2005

 

“Ma quanto è Kitsch?” è la domanda inevitabile che ci frulla in testa alla vista di tante opere d’arte contemporanea giapponese.

Colori sgargianti, affollamenti di Pokemon e statuette plasticose di Doraimon. E poi peni, tette e immagini soft porn.

 

Quello stile non è solo pop, è trash allo stato puro.

Al cospetto degli autori Superflat giapponesi, è davvero forte la tentazione di citare l’ironico Francesco Bonami, che li definisce amichevolmente “gli artisti giappolesi[1]. Eppure, per quanto possa sembrare strano, dietro queste immagini piatte si nasconde una certa profondità.

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Takashi Murakami, Octopus / Complexcon, 2017

 

Le radici dello stile Superflat

Superflat significa “super-piatto” ed è uno stile che è stato inventato dall’artista Takashi Murakami. È lui il protagonista indiscusso di questa storia.

Murakami è figlio di un tassista e di una casalinga originari di Kokura, città divenuta tristemente famosa sul finire della seconda guerra mondiale. Era stata presa come bersaglio per il lancio della bomba atomica insieme a Hiroshima ma, a causa della nebbia e della poca visibilità, gli americani deviarono all’ultimo su Nagasaki, risparmiandola. Una città salva per miracolo, insomma. Un luogo che non ha mai dimenticato il dramma di quei giorni, continuando a vivere un profondo senso d’instabilità.

 

Laggiù, l’immaginario catastrofico è filtrato nella cultura pop dei manga e degli anime, che hanno accompagnato il giovane Murakami. Proprio come lui, intere generazioni di giovani giapponesi senza più riferimenti ideologici, hanno preso quei fumetti dal tono intimistico e apocalittico come forma d’evasione e come punto di riferimento esistenziale.

 

Vai all’articolo Manga e rivoluzione culturale per scoprire la correlazione tra cultura pop giapponese e bomba atomica.

Fiac 2011 @ Grand Palais - Galerie Emmanuel Perrotin

Takashi Murakami, Skull and Flowers, 2012. Foto diNabil Nadifi

 

 

Nel 1986, Takashi s’iscrisse all’accademia di Belle Arti di Tokyo per studiare pittura tradizionale giapponese. Già allora, si rese conto di quanto quel genere d’arte non rispecchiasse la vita contemporanea della sua nazione. Lui stesso, insieme alla nuova generazione di giovani giapponesi, percepiva più sincerità nella cultura pop dei manga, degli anime e dai primi videogiochi, che raccontavano storie eroiche di soggetti borderline, in un tono emotivo ed epico.

 

Fu così che l’artista decise di raffigurare solo i personaggi manga, per lui tanto importanti, omaggiando la cultura Otaku, a cui lui sentiva di appartenere. Ovviamente, questa sottocultura aveva i suoi pro e i suoi contro.

Infatti, per quanto oggi siano di gran moda, inizialmente gli Otaku sono stati accolti in Giappone con molta preoccupazione. Questi ragazzi sembravano vivere una scissione dalla realtà e un progressivo allontanamento dalla vita sociale, poiché per un Otaku il mondo inventato diventava preferibile a quello reale.

Non a caso, tante immagini di Murakami mostrano capacità (spesso sessuali) extra umane e assolutamente inarrivabili, riflettendo quel mondo utopico e irreale a cui possiamo accedere solo grazie alla fantasia.

 

Vai all’articolo Manga e rivoluzione culturale per scoprire di più sulla cultura otaku.

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Takashi Murakami, Homage to Francis Bacon (Study of George Dyer), 2012. L’artista rivisita anche i grandi autori del Novecento in chiave anime-cartoon. 

 

Murakami porta i protagonisti dei manga nel mondo pittorico applicando loro la caratteristica distintiva dell’arte tradizionale giapponese: la bidimensionalità. L’artista s’ispira in particolar modo al prodotto più conosciuto della storia dell’arte giapponese, le stampe xilografiche a basso costo Ukiyo-e che diventarono molto popolari nel periodo Edo. Queste opere avevano contorni spessi, ampie aree piatte di colore e raffiguravano una varietà di soggetti commerciali, spesso esplicitamente sessuali.

La pittura piatta tradizionale unita al prodotto contemporaneo più celebre della cultura pop nipponica (il manga), fa delle opere di Murakami un prodotto super giapponese, una grande dichiarazione d’amore e d’appartenenza verso la sua cultura. Una dichiarazione d’identità.

 

La bidimensionalità in Murakami assume però anche tante altre sfaccettature di significato. Tra le varie, c’è la volontà di appianare le differenze tra “cultura alta” e “cultura bassa”, un obiettivo che l’artista ha sempre perseguito con costanza, riuscendo ad omaggiare e portare alla luce molti fumettisti poco noti. Infatti, ha incoraggiato a esporre alle mostre Superflat diversi autori di manga, come Kentaro Takekuma, Henmaru Machino e Hitoshi Tomizawa.

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Borsa di Louis Vuitton con la grafica progettata da Takashi Murakami. 

C’è un significato legato alla bidimensionalità di Murakami che è molto discusso: si ritiene che ci sia la volontà dell’artista di trasmettere la piatta superficialità del consumismo, nonostante lui stesso sia il primo a sfruttarne i meccanismi.

 

A tal proposito bisogna sapere che Murakami ha fondato una factory intorno al suo brand, una vera e propria industria in cui lavorano circa un centinaio di persone. Ha scelto di chiamarla nel modo più kaiwaii e nipponico possibile “Kaikai Kiki”. Lì, insieme ai suoi assistenti produce le opere d’arte da esporre in museo ma anche borse, spillette e oggetti di merchandising vario.

L’artista accetta di buon grado anche collaborazioni con gli esponenti della moda, ricordiamo, ad esempio, i suoi celebri progetti realizzati con Louis Vuitton. Tutto ciò dimostra il suo apprezzamento verso la cultura popolare più che un atteggiamento critico nei confronti del mondo del consumo. Possiamo piuttosto affermare che Murakami si sia sempre battuto per riconoscere il valore delle opere provenienti dalla cultura bassa, da cui si sente rappresentato, anche quando appaiono chic e di cattivo gusto.

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Takashi Murakami, dettagli del “Ciclo di Arhat”, concepito dopo l’esplosione di Fukushima del 2011. E’ ispirata alle 500 divinità protettrici che nell’1855 vennero raffigurate dopo un terremoto che sconvolse il Giappone. Allo stesso modo, Murakami, invoca la protezione per la popolazione a causa di brutti presagi. 

 

Nelle opere di Murakami, c’è sempre un aspetto turbante. Alle volte è palese, ad esempio nelle immagini per bambini eccessivamente sessualizzate,  altre volte è celato.

Dietro all’apparente allegria delle opere, le sue immagini nascondono tutte le preoccupazioni che Murakami è solito rivelare durante le interviste: l’artista sembra vivere un costante presagio d’imminenti catastrofi ecologiche e finanziarie. I suoi fumetti sono carini e delicati (kawaii) solo all’apparenza: per quanto colorati e bambineschi, hanno l’intenzione d’instillare nell’osservatore un brutto presentimento. È il suo presagio dovuto a un mondo instabile e che potrebbe risvoltarsi improvvisamente in una tragedia[2].

Tutto ciò ha molto a che fare con le famose bombe lanciate sul Giappone e il senso d’instabilità vissuto successivamente dai cittadini, tanto che lo stesso artista ha affermato che: “La seconda guerra mondiale è sempre stata il mio tema, ho sempre riflettuto su come la cultura si è reinventata dopo la guerra[3].

 

 

Succede così che dietro la leggerezza dell’evasione pop si nasconda il trauma di un popolo e il suo sentimento d’insicurezza.

Questo turbamento non appartiene esclusivamente a Murakami ma si riscontra in tutti gli altri artisti che hanno preso parte al movimento Superflat, tra cui ricordo Aya Takano, Yoshitomo Nara, Chinatsu Ban e Chiho Aoshima. Nelle loro opere si nota sempre un profondo amore per i manga, gli anime, i giocattoli d’infanzia e un senso di disagio nei riguardi del mondo reale. Perciò tanto vale evadere con la fantasia, verso lande sicure piene di creature dolciastre ed eroi pronti a difenderci. Chiudere silenziosamente la porta della propria camera e, come un giovane Otaku, sognare ancora ad occhi aperti un mondo a fumetti.

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Installazione di Yoshitomo Nara. Foto di Vivian Ho.

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Chinatsu Ban, “Yellow Elephant Underwear” installati a New York. Grandi elefanti giocattolo defecano materiale colorato decorato con cuori. Foto di Louisa.

 

Se vuoi approfondire qual è la relazione tra cultura pop giapponese, seconda guerra mondiale e problemi sociali, vai all’articolo  Manga e rivoluzione culturale.

 

Se vuoi scoprire di più sul cinema giapponese vai all’articolo Cinema giapponese e filtro dell’Ovest.

 

Se invece vuoi scoprire qual è stato l’approccio dell’Italia con la cultura pop giapponese vai all’articolo Cortocircuiti degli anime in Italia.

 

 

 

 

 

[1] Cit. Francesco Bonami, “Potevo farlo Anch’io”, ed Mondadori, Milano, 2009, p. 95

[2] Cfr. Stefania Viti, Intervista a Takashi Murakami, https://www.nippop.it/it/media-and-arts/blog/jmagazine/media-arts/intervista-takashi-murakami

[3] Superflat – Storia e concetti, https://m.theartstory.org/movement/superflat/history-and-concepts/

 


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Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.
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