La censura in Cina consiste in un insieme di tecniche usate per limitare le libertà d’informazione e d’espressione personale. Si tratta di uno strumento repressivo complesso che è diventato una consuetudine culturale: i cinesi ci sono talmente abituati che alle volte sembrano non accorgersene più.
A pagarne le spese sono spesso gli artisti. Continuamente censurati, multati, torturati e alle volte costretti all’esilio, continuano una battaglia per la libera espressione che sembra non vedere una fine.
“É più facile sapere cosa ci manca quando ci viene tolto, e non quando non ci viene dato, ed è ciò che succede in Cina” riflette Pierre Haski, noto giornalista francese.
La censura in Cina è una pratica immemoriale che ha saputo adeguarsi allo spirito dei tempi. È così che, con l’avvento di Internet, la Repubblica cinese ha creato il Great Firewell, la grande muraglia digitale che blocca la maggior parte dei servizi che utilizziamo in Europa come Google, Youtube, Facebook, Twitter, Wikipedia rimpiazzandoli con i propri, made in China, e creando “una messa in scena dell’attualità”.
Criticata da molte organizzazioni internazionali per la violazione della libertà di espressione e dei diritti umani, la censura in Cina risulta essere una delle più severe al mondo. Secondo Diacritica, trimestrale indipendente di letteratura, “non esistono fonti cinesi ufficiali che riconoscano l’esistenza della censura dopo il 1949. […] Questa ufficiale “non-esistenza” della censura e l’impossibilità di acquisire informazioni ufficiali in proposito sono la ragione per cui la letteratura accademica sull’argomento è quasi inesistente¹.”
La storia della censura in Cina inizia con la rivoluzione maoista.
Nel 1949, sotto la presidenza di Mao Zedong, nasceva la Repubblica Popolare Cinese. La Rivoluzione culturale figlia del maoismo radicalizzò il processo rivoluzionario, travolgendo e distruggendo tutto ciò che fosse non-allineato al partito, o che potesse pregiudicarlo. Questo processo di occultazione si concluse nel 1976 con la morte del leader. Ancora oggi rappresenta una delle pagine più buie della storia della RPC ma rimane un tema proibito nell’ambito della ricerca e del dibattito pubblico cinese.
Alla morte di Mao il governo viene assunto dalla fazione moderata del PCC legata a Deng Xiaoping. La Cina si apre alla modernizzazione ma senza concessioni democratiche. Tuttavia il controllo ideologico del partito sembra stemperarsi e nelle università si percepisce un nuovo fermento culturale che sfocerà, nel 1989, nella protesta di piazza Tienanmen. Se il governo di Deng Xiaoping concedeva evidentemente maggiore libertà rispetto al periodo maoista, successivamente alla strage di piazza Tienanmen, il controllo politico si acuì nuovamente diventando estremamente capillare.
Proprio in quegli anni si stava diffondendo internet, che i leader cinesi controbattono fin da principio con innovativi sistemi di censura e propaganda. Ne è prova il Golden Shield Project, il progetto di sorveglianza che blocca dati potenzialmente sfavorevoli provenienti dai paesi stranieri, gestito dal Ministero di pubblica sicurezza della Repubblica Popolare Cinese. Ragione per la quale un cinese non utilizza come motore di ricerca Google ma Baidu. Whatsapp e Facebook sono invece sostituiti da WeChat, e Twitter da Weibo.
Se, ad esempio, cercassimo notizie relative a piazza Tienanmen su Baidu non otterremmo che informazioni turistiche sull’attrazione pechinese. Ma se usassimo Google il primo risultato indicizzato sarebbe il Rivoltoso Sconosciuto: un ragazzo con dei sacchetti della spesa, che da solo cerca di ostacolare il passaggio dei carri armati in rotta contro gli studenti che occupavano la piazza. L’immagine simbolo di questa protesta nel resto del mondo, è invece occultata dai canali ufficiali di ricerca in Cina.² Se nel mondo occidentale la protesta di piazza Tienanmen è considerata un evento fondamentale del XX secolo, in Cina il solo parlarne è un tabù e il PCC occulta le testimonianze con censura e disinformazione.
Nota fotografia che mostra il “Rivoltoso sconosciuto”, non visibile con il motore di ricerca Baidu a causa della censura in Cina.
Per influenzare l’informazione il PCC si serve di una moltitudine di tecniche di propaganda. Alcune misure sono preventive e riguardano la produzione di norme che definiscono quali argomenti possano essere trattati; altre contemplano l’arresto dei soggetti dissidenti.
Secondo il rapporto annuale del Committee to Protect Journalists di New York, nel 2019 almeno 48 giornalisti erano detenuti in carcere in Cina con accuse legate al proprio lavoro. La Cina detiene, infatti, il titolo di paese più pericoloso dove esercitare la professione³.
Anche le compagnie di Internet ricevono istruzioni specifiche dalle autorità di propaganda a proposito degli argomenti da proibire e delle questioni da pungolare. Se una piattaforma è troppo “democratica” riceve intimidazioni da parte dell’ autorità preposta; per questo generalmente la censura viene pre-imposta e disciplinata dalle singole piattaforme.
L’ARTE: UNO STRUMENTO A DIFESA DEL DIRITTO ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
Il diritto alla libertà d’espressione è iscritto nella Costituzione cinese all’articolo 35, che va però letto in relazione ai principi generali che vietano ogni sabotaggio ed opposizione al sistema socialista. Solo in subordinazione a tali limitazioni le libertà espresse nell’articolo possono essere esercitate.
La censura in Cina ha un impatto significativo sugli artisti. La tensione tra espressione creativa e repressione governativa è una costante che impone agli artisti delle scelte radicali.
Gli autori che trattano argomenti scomodi per il governo cinese sono soggetti a repressione e censura, oltre che alla persecuzione legale. Una persecuzione legale che talvolta ricorre a detenzioni arbitrarie e torture.
Opera di Gu Wenda, artista che inventa falsi ideogrammi e pseudo-linguaggi. La sua prima mostra in Cina è stata chiusa dalle autorità poiché il governo temeva che le sue opere potessero contenere un messaggio sovversivo. Oggi vive e lavora a New York.
L’onnipresente sorveglianza da parte degli organi governativi, la limitazione artistica e i connessi rischi per la sicurezza che ne derivano, dovrebbero indurre ogni artista a prediligere la via dell’autoesilio ma non rappresenta l’unica via d’uscita dal sistema. Molti di loro continuano ad opporsi alle limitazioni imposte attraverso sotterfugi. Si organizzano attraverso reti di supporto, fisiche o virtuali, in cui condividono informazioni, esperienze, strategie e che garantiscono soprattutto il sostegno emotivo. Vere e proprie comunità in cui vengono pianificate azioni e coordinate le forze.
D’altronde, il mestiere di un artista è quello di allestire mostre: se non può farlo alla luce del sole, lo farà clandestinamente. Non è raro, infatti, con tutte le cautele del caso da parte di organizzatori e visitatori, imbattersi in mostre clandestine.
Anche le collaborazioni internazionali rappresentano una valida strategia per garantire visibilità alle proprie opere. Per l’artista dissidente rimanere in Cina rappresenta un atto di coraggio perché oltre alle conseguenze legali, è evidente come si possa con facilità andare in contro all’emarginazione e all’esclusione dai circuiti ufficiali, con il divieto d’accesso ai finanziamenti quindi alle opportunità di esposizione.
Per coloro che scelgono la carta dell’auto-esilio la situazione risulta decisamente diversa.
Il contatto con una nuova terra, la collaborazione con altri artisti, la possibilità di esprimersi senza riserve, può sfociare in una naturale rinascita artistica. Se non è più necessario ricorrere a contenuti subliminali per comunicare il proprio messaggio, a tutela della propria incolumità, è anche vero che questo deve essere controbilanciato con aspetti negativi, talvolta demoralizzanti, come l’eventuale perdita di radici e della propria identità cinese, con sentimenti di nostalgia e anche con difficoltà finanziarie che potrebbero naturalmente sussistere in territorio straniero. L’esilio evidentemente comportare la perdita di contatti con la cultura d’origine, ma è l’alternativa che rende possibile la creazione senza restrizioni e per la maggior parte di questi artisti, uscire dal proprio paese natale è l’unico modo per garantirsi visibilità a livello internazionale.
Installazione sul “Lennon Wall” di Melboirne a sostegno delle contestazioni represse ad Hong Kong, allestito da Badiucao, artista dissidente cinese costretto all’esilio. Vive e lavora in Australia.
Foto di Marcus Wong.
LA NATURA DISSIDENTE DELL’ARTE CONTEMPORANEA CINESE
“Artista cinese odiato dal governo cinese” è quanto leggiamo nella biografia Istagram di Badiucao. E subito, scorrendo il feed, ci rendiamo conto del perché di tanto odio. Radicale e audace, l’artista continua a sfidare il regime cinese sensibilizzando il pubblico su diritti umani e libertà d’espressione.
Badiucau, noto anche come il Banksy Cinese anche se, a differenza di questi, ha nome e identità fin troppo noti, è forse il simbolo di questa radicale dissidenza.
Badiucau utilizza l’arte come strumento di denuncia soffermandosi soprattutto sulla violazione dei diritti umani. Si è occupato della repressione di Myanmar, del genocidio degli Uiguri, della censura di cui sono stati vittime i cittadini di Whuan durante la pandemia di Covid-19. La sua opera La Cina (non) è vicina. Opera di un artista dissidente è stata ospitata al Museo di Santa Giulia a Brescia, anche se inizialmente ci sono state controversie riguardo all’esposizione dovute alla pressione delle autorità cinesi che loro malgrado non sono riuscite ad imporsi.
Fumetto di Badiucau in cui il governo cinese sembra correre in soccorso di un bisognoso ma in realtà è solo interessato a imporgli una bandiera ai fini della propaganda.
Un altro pericoloso nemico del governo cinese è Ai Wei Wei, artista poliedrico impegnato in una strenua difesa dei diritti umani e dalla libertà d’espressione.
“Non ho idea di come ho perso la mia libertà e se non sai come hai perso qualcosa, come puoi proteggerla? ” Riflette Ai Wei Wei relativamente al periodo della sua detenzione. Sì perché il governo cinese lo arrestò nel 2011 per 81 giorni con l’accusa ufficiale di evasione fiscale, e subito il Ministero degli esteri cinese si affrettò a puntualizzare che la detenzione dell’artista non avesse nulla a che vedere con argomenti legati alle libertà di pensiero e di parola. Il suo rilascio fu fortemente influenzato dall’opinione pubblica internazionale.
Oltre ad essere un acclamato artista di fama internazionale, Ai Wei Wei è considerato una delle maggiori coscienze critiche dell’arte contemporanea. “Non si tratta di libertà di parola. Si tratta della libertà di fare domande […] Tutti hanno il diritto di fare domande. Nelle nostre domande, più che nelle risposte, possiamo trovare la mappa della mente umana.”
Mostra “Making sense” di Ai Weiwei di Londra. Foto di Mekron.
Nel suo ultimo progetto, Ai vs AI, l’artista si confronta con l’intelligenza artificiale. Nell’arco di 81 giorni (li stessi che ha passato in prigionia) l’artista pone 81 domande rivolte all’AI e al grande pubblico, comparendo sugli schemi pubblici delle città di tutto il mondo.
Ispirato alle Domande al cielo risalenti a circa 2300 anni fa, attribuite al poeta cinese Qu Yuan, si intrecceranno politica, filosofia, scienza alla ricerca di una risposta circa il ruolo dell’umanità, chiamata a relazionarsi con un pianeta in continua e repentina evoluzione. Alle 81 domande rispondono comparativamente Ai Wei Wei e i sistemi AI.
“Cosa è più importante, la conoscenza o l’immaginazione?”
“Ti importa dell’umanità?”
“Chi sono io?
Se vuoi conoscere tutta la storia di Ai Weiwei vai all’articolo “Ai Weiwei, artista antiautoritario“.
Se invece vuoi conoscere gli artisti contemporanei più conosciuti provenienti dalla Cina vai all’articolo “I 15 artisti cinesi che devi conoscere“.
¹ La censura libraria nella repubblica popolare cinese. Da Mao Zedong a Xi Jinping di Chiara Jannella.
² ARTE Concert – Media e censura a Pechino.
³ Yi Chen, Publishing in China in the Post-Mao Era: The Case of Lady Chatterley’s Lover, in «Asian Survey», vol. 32, n. 6, pp. 568- 82, University of California Press, 1992, p. 569.
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