Dopo aver visto la mostra “Anime Manga. Storie di maghette, calciatori e robottoni” al Museo della Figurina di Modena, ho dovuto buttare giù tutte le informazioni che ho potuto. Mi ha aiutato a risolvere un grande dilemma: ho finalmente scoperto perché questi cartoni animati piacevano così tanto a noi e così poco ai nostri genitori.
Gli anime giapponesi arrivarono in Italia metà anni ‘70, affascinando i bambini e scandalizzando i genitori. Questi ultimi li guardarono con molta diffidenza, come se fossero prodotti di basso livello, inappropriati per un pubblico giovane.
Le preoccupazioni dei genitori furono dettate dall’improvviso cambio di registro: erano troppo violenti e crudi rispetto ai cartoni americani, da sempre incentrati su storie più edulcorate. Al contrario, gli anime affrontano tutti gli aspetti più duri della vita, come la sofferenza, la guerra e la morte[1] con grande realismo. Ci accompagnano nel viaggio di crescita personale dei protagonisti, parlando un linguaggio introspettivo, svelando i pensieri del protagonista e mostrando la sua psicologia. L’osservatore è invitato a vivere il conflitto, sia intimo, sia con il mondo esterno, compiendo il percorso che porta il protagonista al superamento delle difficoltà della vita, per quanto drammatiche esse siano.
L’aspetto intimo d’introspezione psicologia tipico dei manga veniva ancora più esasperato nei primi anime per una questione tecnica. Dato l’improvviso successo internazionale, le case di produzione giapponesi si trovarono sommerse di lavoro dovuto a un’inaspettato interessamento da parte del mondo occidentale. Il problema era quello di produrre in economia e in tempi brevissimi moltissimi anime: per questo motivo hanno meno fotogrammi al secondo rispetto agli altri cartoni, con movimenti più scattosi e lunghe scene fisse.
Queste lunghe scene immobili vengono corrette con tecniche di narrazione che lasciano tempo ai pensieri dei personaggi, commenti fuori campo, musica coinvolgente e suoni, come il battito del cuore. La sospensione del tempo e l’attesa fanno sì che gli spettatori possano calarsi a pieno nella situazione, vivendo passo passo i tumulti emotivi del protagonista.
I genitori non avevano tutti i torti nel restare sconcertati. Ci vollero infatti diversi anni prima che la televisione italiana si rendesse conto che gli anime, così come i manga da cui sono tratti, non sono tutti prodotti rivolti ai bambini. In Giappone la produzione è divisa in fasce d’età: per adulti, adolescenti, bambini piccoli e bambini in età scolare. In Italia ciò si capì in maniera molto tardiva, tant’è che ogni genere di anime veniva mandato in onda nella fascia oraria dedicata ai bambini, salvo poi tentare di correggere il tiro a suon di censure.
Ricordo ancora lo sgomento con cui mia madre si parava davanti al televisore per coprire gli schizzi di sangue causati dai colpi dell’uomo tigre, che in effetti è tratto dal manga di Ikki Kajiwara destinato ad un pubblico adulto.
A trovare l’approvazione di tutto il pubblico occidentale, genitori inclusi, ci fu il fortunato ciclo di anime “Wold Masterpiece Theater” (Teatro dei capolavori del mondo) prodotto dalla Nippon Animation dal 1975 al 1997. A differenza di tutti gli altri anime, questi non sono tratti da manga ma da opere letterarie occidentali per ragazzi. Descrivono luoghi a noi più famigliari perché ambientati in Europa o in America, con storie ben caratterizzate da un punto di vista psicologico ma con un fine palesemente pedagogico. Si tratta di cartoni animati come Heidi, Peter Pan, Anna dai capelli rossi, Dolce piccola Remì, Papà gambalunga, l’Ape Maya e Le avventure di Tom Sawyer, tutti tratti da romanzi occidentali.
In questi anime ricorrono alcuni elementi archetipi, come la condizione di orfanità e il viaggio verso mete lontane, che conduce i protagonisti a verso il superamento delle difficoltà e a diventare adulti onesti e rispettabili. Questi anime riescono a fondere il linguaggio dei manga alla cultura occidentale in maniera delicata, evitando uno scarto culturale brusco.
Il cartone Heidi è tratto da un famoso romanzo scritto da Johanna Spyri, pubblicato nel 1880 e ambientato fra la Svizzera e la Germania nella medesima epoca.
Contemporaneamente però, il pubblico dei giovani s’innamora di altri eroi, presenti negli anime non occidentalizzati, giunti in Italia. Il pubblico femminile viene catturato dai primi Shojo, come Candy Candy e Lady Oscar. I ragazzi trovano invece i loro eroi tra i robot e gli eroi borderline, alle volte molto violenti ed espliciti, come I cavalieri dello Zodiaco e Ken il guerriero. Tutti questi anime si aprono ai temi più propri dei manga giapponesi, come la morte, l’ambiguità sessuale, l’emotività estrema e travolgente.
Ranma 1/2 è un tipico anime giapponese che si apre alla tematica dell’ambiguità sessuale e dell’intersessualità.
Alcuni cortocircuiti culturali portarono a pesanti censure e revisioni da parte delle reti televisive italiane.
Un esempio evidente è il finale di Candy Candy, che in Italia è andato in onda come se fosse la conclusione logica di una storia d’amore nostrana: dopo varie peripezie, la protagonista si sposa con Terence e vissero felici e contenti. Al contrario, nella versione nipponica, Terence si sposa con un’altra donna, mentre Candy sembra accontentarsi dell’uomo che fino a quel momento era apparso come il suo padre adottivo, Albert.
Il pubblico italiano non avrebbe accettato di buon occhio un finale così amaro, ignaro del fatto che il Giappone sia ben slegato dal concetto di lieto fine. Spesso, infatti, i personaggi e gli eventi nei manga e nei rispettivi anime hanno un significato metaforico e simbolico, cosicché Terence rappresentava l’amore volubile e carnale dell’adolescenza, mentre Albert l’amore maturo dell’età adulta. Per questo motivo Terence e Candy non potevano stare insieme, perché al di là del sentimento travolgente, dovevano “fare la cosa giusta”.
Solo con l’andare del tempo il pubblico italiano si è adattato al linguaggio nipponico, lasciandosi trascinare in una crescente giappo-mania.
Dopo gli anni ’90, la televisione italiana ha imparato a differenziare gli anime per le fasce d’età, rimuovendo per lo più quelli inadatti ai bambini e ai ragazzi adolescenti. Questo ha minimizzato il problema delle censure e ha fatto sì che tutte le altre serie fossero seguite principlamente via web. Infatti, oggi internet è il principale mezzo di diffusione degli anime e conta centinaia di siti specializzati.
Il resto della storia la conosciamo bene: negli ultimi decenni abbiamo visto fiorire fumetterie, siti specializzati, fiere del fumetto ed eventi cosplay, nonché la scoperta del turismo di massa verso le terre del Sol Levante e l’amore folle per cucina giapponese.
Com’è inevitabile che sia, ovunque sono fiorite scuole e corsi di fumetto manga, un linguaggio che ha conquistato e modificato irreversibilmente il mondo delle graphic novel e dei cartoni animati di tutto il mondo. Sono nati anche i Global Manga, cioè fumetti in stile giapponese prodotti da autori di altre nazionalità.
Insomma, ovunque gli anime giapponesi siano arrivati sembrano aver generato altri mondi di fantasia e manifestazioni creative.
Se vuoi scoprire 3 aspetti davvero interessanti sui manga vai all’articolo Manga e rivoluzione culturale.
Se vuoi scoprire qualcosa sul mondo del cinema giapponese vai all’articolo Cinema giapponese e filtro dell’Ovest.
Se vuoi conoscere la poetica di un artista che utilizza gli anime e i manga nella sua pittura vai all’articolo Murakami e la profondità della pittura piatta.
[1] Cfr. curatela della mostra “Anime Manga. Storie di maghette, calciatori e robottoni” a cura di Francesca Fontana ed Enrico Valbonesi.
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.