È facile apprezzare i murales coloratissimi, esteticamente sofisticati, nati per mano di virtuosi artisti in incognito. Più complicato è accettare quelle firme frettolose a pennarello che adornano i seggiolini degli autobus, i cartelli stradali e i bagni pubblici. Eppure la storia della Street art e del movimento writer nasce proprio da quei fastidiosi scarabocchi, destinati a scatenare il movimento artistico di massa più ampio della storia.
Scritte sui muri nell’Avana. Foto di Antwann
La storia delle tag è una delle poche che parte veramente dal basso. Se ci appaiono così democraticamente brutte, disadorne e socialmente degradanti è perché sono davvero frutto del malessere e del disagio.
Infatti, la pratica di firmare i muri è iniziata sul finire degli anni ’60 nei quartieri più poveri di Philadelphia e New York (città sull’orlo della banca rotta).
Il protagonista indiscusso di questa storia è il Bronx, il peggiore quartiere Newyorkese: un ghetto nero in balia del crimine organizzato, in cui gli immigrati vengono emarginati e abbandonati in una situazione di degrado allarmante. Laggiù i giovani non ricevono alcun genere d’istruzione e crescono senza alcuna speranza nel futuro. Il loro destino sembra segregato là, lontano dal benessere e drammaticamente votato all’ingresso nella malavita.
Se vi state chiedendo come mai si siano limitati a scrivere i loro nomi invece che offese al governo e insulti alla borghesia, la spiegazione è molto semplice: la maggior parte di questi ragazzi è analfabeta e l’unica parola che sa scrivere è il proprio nome.
Il Bronx negli anni ’60
Gli autori delle prime tag sono persone socialmente invisibili, la sola idea di poter un giorno andarsene dal ghetto appare loro impossibile. Scrivere e marchiare un luogo pubblico è un gesto spontaneo che serve a uscire da questa situazione d’invisibilità, testimoniando la propria esistenza.
Non a caso, l’attività di segnare il proprio passaggio prende il nome di “Getting up”, ossia “venire fuori-mostrarsi”.
Il primo tagger della storia sembra essere il newyorkese Julio 204, le cui tracce risalgono fin al 1968. Di origine sud americana, per circa due anni scrive il suo nome ovunque con il pennarello indelebile, fino a quando non viene rinchiuso in ospedale psichiatrico[1].
Presto altri ragazzi decidono di seguire il suo esempio, tra i vari Taki 183 che inizia un vero e proprio assedio della città. Lo scopo dei tagger è di rendere visibile il proprio nome, ripetendolo più volte possibile oppure piazzandolo nei luoghi più inaccessibili.
Questo assedio alla città prende il nome di “Bombing”, cioè “bombardamento”. È il modo per riappropriarsi di uno spazio urbano che sembra non gli appartenergli.
Celebre foto di Taki 183, uno dei pionieri del movimento writer, mentre disegna la sua tag
I luoghi d’assalto preferiti dei tagger sono i mezzi pubblici, in particolare i treni e le metropolitane, poiché sono destinati a uscire dal quartiere e portare i loro nomi più lontano possibile.
La pratica di firmare le superfici si diffonde velocemente e presto, da semplice affermazione esistenziale, si tramuta nella ricerca di fama tra coetanei. Ne deriva una sorta di gara a chi ha una maggiore presenza sul territorio. Chi realizza più firme in una zona è nominato “King” e diventa una vera e propria leggenda metropolitana, un eroe urbano.
A inizio degli anni ’70 New York è sommersa da centinaia di firme a pennarello. Prima ancora che nasca un vero e proprio movimento writer, il comune è obbligato a spendere diversi miliardi per ripulire la città. La pratica di fare le tag esce dai ghetti per contagiare tutte le fasce sociali di giovani che abbracciano la contestazione sociale e vogliono rivendicare la loro esistenza nel mondo.
Giovane intento a incidere una scrach tag
È proprio a causa di questa proliferazione intensa che nasce la necessità di personalizzare la propria firma, in modo da distinguerla dalle altre.
I ragazzi iniziano una ricerca stilistica creativa, che passa dall’elaborazione di un lettering personale alla ricerca di diversi strumenti. Le scritte iniziano a diversificarsi: c’è chi usa solo un colore specifico, chi sceglie pennarelli a punta flessibile, chi a punta piatta spessissima.
Nascono addirittura le Scrach tag, ovvero firme graffiate sulle superfici, impossibili da rimuovere con i comuni solventi.
È in questo momento che matura una coscienza ben precisa che contraddistinguerà tutto il movimento writer: l’elaborazione del proprio lettering e del proprio stile diventa una ricerca personale e intima. Scrivere il proprio nome equivale a fare un AUTORITRATTO, è un modo per raccontarsi. Infatti, una delle regole dei writer è quella di non rubare lo stile di scrittura a un altro perché ciò equivale a un furto d’identità.
Nel 1972 si diffonde l’utilizzo del colore spray. Non si sa esattamente chi abbia avuto per primo l’idea di utilizzarlo, si sa solo che da quel momento in poi le cose cambiarono irreparabilmente.
Le nuvole di colore acrilico sparate dalle bombolette conquistarono tutti per una serie di motivi: permettevano di eseguire scritte molto più grandi a gran velocità, possedevano una gamma di colori scintillanti che assicurano una buona visibilità e si prestano a utilizzi molto creativi.
In oltre, lo spray sembra fatto apposta per essere utilizzato sulla lamiera dei treni, superficie sulla quale risalta in tutta la sua brillantezza.
Da questo momento in poi, le carrozzerie dei treni e delle metropolitane saranno viste come enormi tele bianche su cui dipingere, pratica che prende il nome di Treinbombing.
“L’urgenza di affermare la propria esistenza fuori dalle leggi del mondo, nell’intensità imprendibile di un getto di colore.“Cit. Piergiorgio Pardo a proposito dell’aerosol art[2]
È proprio dalla scoperta delle bombolette, quindi dal 1972, che collochiamo ufficialmente la nascita del movimento writer. Questo assume una forma leggermente diversa dal mondo delle tag: mentre le tag sono una rivendicazione esistenziale e individuale, i writer diventano un vero e proprio movimento collettivo, si radunano in gruppi e sviluppano la coscienza di una vera e propria controcultura.
P.S. Come controcultura s’intende un movimento che ha un suo sistema di valori e regole interno, spesso in contraddizione e contestazione con quello della società vigente.
Man mano che i treni si riempiono di scritte diventa necessario rendere le proprie più evidenti e sviluppare uno stile riconoscibile. C’è chi sostituisce i cap delle bombolette con quelli della schiuma da barba o dell’appretto per ottenere un tratto più ampio, chi aggiunge disegni o personaggi a fumetto (puppets), chi linee si contorno (outline). Iniziano a delinearsi i primi stili di scrittura come il Wildstile (Selvaggio, illeggibile e intricato) e il Softie (lettere gommose e tondeggianti).
Nel giro di pochissimo tempo, fare il writer diventa una cosa seria, una ricerca espressiva impegnativa. Dalla semplice elaborazione di una tag che chiunque poteva fare, ora realizzare un pezzo richiede studio, tecnica, conoscenza del fumetto e gusto nella composizione. Tutto ciò nel minor tempo possibile: quello dell’illegalità. Infatti, man mano che passa il tempo, non essere colti in flagrante diventa sempre più difficile. La lotta delle autorità contro i writer s’inasprisce sempre di più, incrementando controlli, sanzioni e pene.
“Qui è più difficile cavarsela con i graffiti, con tutte le bande che scorazzano e che se ci trovano non esitano a importunarci o ammazzarci. Poi ci sono gli sbirri che ci salassano con multe salatissime, ci mettono in prigione e ci sporcano la fedina penale per fottere il nostro futuro come se fossimo criminali incalliti. È una situazione di merda!”Jel, writer di Los Angeles, testimonia che la situazione odierna non è più semplice di allora[3]
Esempio di Wild Style con puppets
I writer iniziano a concepirsi come veri e propri artisti, anche se con alcune peculiarità che li distinguono da qualunque altro autore:
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La gratuità del gesto: non occorre pagare nessun biglietto per vedere la loro arte.
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L’anonimato dell’autore: la natura illegale di quest’arte impone l’anonimato dell’autore. Questa caratteristica è controcorrente a tutto il mondo contemporaneo. Mentre tutti cercano di apparire, il writer si nasconde dietro scritte illeggibili e nickname.
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La consapevolezza dell’impermanenza: mentre tutte le opere d’arte sono realizzate per durare in eterno, il writer sa che la sua opera presto o tardi verrà cancellata. Alle volte, anche subito dopo la sua realizzazione.
“Per me i graffiti sono arte. Non un’arte ipocrita come quella che caratterizza gran parte delle opere esposte nelle gallerie, perché i nostri lavori sono cose che facciamo per esprimere noi stessi. Un’arte che si ritrova per le strade a disposizione di quelli che non hanno una cultura, ma che sanno apprezzare le espressioni artistiche così come si presentano[4].” Deninja
Lee Quiñones (anche noto come Lee II) è stato uno dei primi writer a utilizzare il fumetto in modo massiccio, spostando il nome da elemento centrale a parte di una composizione più ampia
Già nel 1974 il sistema dell’arte americano si mostra estremamente interessato a questo fenomeno. Le gallerie private iniziano a ingaggiare alcuni writer per realizzare opere su tela per la vendita. Tra i vari autori che accettano di lavorare per gallerie e collezionisti ricordo Futura 2000, che si professionalizza e ha il merito, grazie alla sua collaborazione con i Clash e altre band musicali, di aver esportato l’arte dei graffiti in Europa.
Questo interessamento del sistema artistico al mondo sotterraneo dei writer causa una rottura nel movimento: alcuni di loro accettano di entrare in un circuito commerciale mentre altri sono convinti che l’illegalità sia l’unico modo per esprimersi liberamente.
Esakae sostiene quest’ultima ipotesi: “I graffiti sono un calcio in faccia al sistema delle gallerie e dei musei, dove l’artista ha i suoi protettori come una puttana, nel sistema capitalista è considerata merce, un prodotto… la graffiti art è gratis, è lì da vedere, non è proprietà di nessuno, è di tutti…[5]”.
Dettaglio di un muro concesso legalmente a Futura 2000, dipinto a Wynwood (Miami) nel 2011
Nonostante questa contraddizione interna al movimento non si sia mai completamente sanata, attualmente i writer tendono a condurre una doppia vita.
Sembrano non abbandonare mai del tutto l’attività illegale, che ritengono la reale linfa vitale del loro lavoro, ma contemporaneamente accettano l’idea di poter vivere della loro arte eseguendo pezzi su commissione e approfittando dei Wall of Fame (i muri concessi dal comune).
La necessità di poter lavorare nell’ambito della legalità spesso subentra con l’età, come spiega Sherm: “Non essendo più così giovane preferisco gli spazi legali, tuttavia mi sforzo di tenere sempre le due cose in equilibrio, altrimenti mi annoierei[6].”
In oltre, la legalità ha degli ovvi vantaggi che vanno di là del lato economico, ovvero quelli di poter finire i pezzi con calma e alla luce del sole, invece che nel buio della notte in tutta fretta.
Dati i vantaggi, alcuni writer, come Blu, accettano di eseguire alcuni pezzi legali ma solo a patto di non rinunciare all’anonimato, garantendosi la possibilità di continuare ad agire nell’illecito senza incorrere in conseguenze legali.
Dettaglio di un Wall of Fame dipinto da Airone a Milano
Insomma, quasi tutti i writer affermati conducono una doppia vita, diurna e notturna, dipingendo a volte come vandali e altre come grandi artisti. Ognuna delle identità ha i suoi vantaggi, come racconta Siloette: “Secondo me deve esistere un delicato equilibrio (tra legale e illegale). Anche se io cerco di mantenere le cose distinte, mi dedico a entrambe con la stessa energia. Amo allo stesso modo dipingere su treni merci e su un bel muro, ma per motivi diversi[7].”
Ai writer il solo lavoro come artisti istituzionalizzati, non basterebbe. Nella completa legalità, il movimento sarebbe destinato a morire.
Il senso più profondo del loro lavoro vive nel gesto rubato alla strada: da lì nasce e lì si rinnova nel tempo. L’opera deve essere regalata mentre tutti dormono, quando nessuno la sta aspettando.
Le semplici tag, invece, possono vivere solamente nell’illegalità. Lontane da pretese artistiche e riconoscimenti ufficiali, sorprende come, dopo cinquant’anni, ancora non accennino a sparire. In ogni generazione di adolescenti si riaffermano un modo efficace per appropriarsi del mondo, di renderlo proprio. E di condividere con esso una parte di se stessi.
[1] Alessandro Mininno, Graffiti writing, ed. Mondadori arte, 2008, Milano
[2] Piergiorgio Pardo, Le controculture giovanili, ed Xenia, 1997, Milano, p. 31
[3] Cit. Jel, Graffiti Woman, Nicholas Ganz, ed. L’ippocampo, 2006, Milano, p. 65
[4] Cit. Deninja, Graffiti Woman, Nicholas Ganz, ed. L’ippocampo, 2006, Milano, p. 40
[5] Cit. Esakae, Graffiti writing, Alessandro Mininno, ed. Mondadori arte, 2008, Milano
[6] Cit. Sherm, Graffiti Woman, Nicholas Ganz, ed. L’ippocampo, 2006, Milano, p. 110
[7] Cit. Siloette, Graffiti Woman, Nicholas Ganz, ed. L’ippocampo, 2006, Milano, p. 113
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.