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INTERVISTA A GIACOMO BUFARINI: ESSERE ARTISTA SIGNIFICA COMPROMETTERSI

In arte Run

Chiara Righi7 Gennaio 2025

Giacomo Bufarini, in arte Run, è uno dei maggiori muralisti e street artists italiani, che oggi vive a Londra. Nato a Falconara tra le culture underground e l’arte urbana degli anni ’90, si è imposto tra i pionieri della street art insieme ai suoi amici Blu ed Ericailcane.

Il suo lavoro oggi è fatto di sogni, viaggi, relazioni e libere scelte. Ne ho parlato con lui, con la preziosa compagnia di Catalina T. Salvi e Ilaria Iannolo, scoprendo come l’arte alle volte sia una scelta complessa ma irrinunciabile.

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Gianfranco Bufarini (Run), “Trumpets”, 2017, Londra. Courtesy l’artista.

 

 

 

Ci racconti come ti sei avvicinato all’arte?

 

Mi sono avvicinato all’arte in maniera molto naturale, nel senso che ci sono nato dentro. Mia madre non si è mai definita un’artista, ma artigiana. Ha fatto il magistero d’arte a Firenze, poi ha avuto un negozio in cui produceva oggetti d’artigianato d’ogni tipo. Faceva anche trompe l’oeil, dipinti su pareti, solitamente all’interno delle case.

Quindi fin da bambino ho il ricordo di questi pennelli dentro un bicchiere sul tavolo della cucina, oppure di lei che disegnava con la matita. È stato l’imprinting per me: mi faceva proprio stare bene vedere qualcuno che disegnava.

Poi c’era mio padre, che invece non era un artista per niente, però era un gran collezionista di fumetti.

 

 

 

Perché ti sei avvicinato proprio all’arte di strada?

 

Quello è dovuto alle culture di cui facevo parte, per esempio quella dello skateboard e quella hip hop. Poi perché in Italia abbiamo avuto la fortuna di avere i centri sociali, che sono stati una fucina di arte, di musica e di cultura per i ragazzi. Lì ho fatto i miei primi graffiti.

Quando ero ragazzo, ad Ancona c’era un fervore enorme per i graffiti. L’architettura si prestava tantissimo a questo tipo di lavori, ad esempio, ho in mente due strade che chiamavano “le incompiute”, dove avevano lasciato con un sacco di cemento. Poi c’era Damage, un writer che ad Ancona è stato proprio un maestro, e Juice, una jam gigantesca del 96/97, per cui sono venuti artisti da tutta Europa.

 

I graffiti mi hanno approcciato a un certo tipo di cultura, però non mi sento di dire: “sono stato un writer”. Perché in realtà non lo sono stato mai veramente. Già da giovane io ero sempre quello che faceva i puppets, invece delle lettere. Ero già ossessionato dai muri, però ero molto “pauroso”. Nel senso che non ero uno che usciva di notte, di nascosto, per andare a dipingere in giro per la città.

Per esempio, qua a Londra, dove vivo oggi, ho voluto provare a dipingere di giorno. Ho iniziato a scegliermi dei posti che sapevo che non avrebbero disturbato troppo un privato. Nel senso che pensavo: “quel posto lì è abbandonato, è sulla strada principale, però nessuno se ne sta prendendo cura”. I miei primi pezzi qua a Londra li ho fatti appunto di giorno, molto spesso la Domenica, perché pensavo che la gente fosse più rilassata, più tranquilla. Infatti, avevo aperto un blog su Tumblr che si chiamava The Sunday Painter. Mi sceglievo la parete e me la studiavo. Coprivo anche il pavimento così che nessuno potesse lamentarsi dello sporco.

Qua succedono talmente tante cose che nessuno sta a pensare: “Questo sta dipingendo senza permesso”. Se ti metti una giacca catarifrangente, diventi invisibile, la gente non ti calcola.

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Giacomo Bufarini (Run), 2017, Shenzhen (Cina). Courtesy l’artista.

 

 

 

Quando hai iniziato a definirti un artista?

 

Mi sono definito artista quando ho lasciato tutto il resto per dedicarmi all’arte.

Sento la gente che definisce chiunque un artista, con frasi del genere: “Mio fratello è un’artista perché fa l’acquerello”. So che è un po’ venale, ma io ti definisco artista se alla fine del mese paghi le bollette con il lavoro artistico che fai, con quello che esce dalle tue mani.

A tutti piace un po’ disegnare, seguire l’arte, però dipende da quanto ti comprometti. Io dedico tutta la mia vita per questo, rinuncio a delle cose, perdo degli affetti, gli dedico tutto il mio tempo. Mi sto giocando proprio tutto per questo.

 

 

 

Cosa ti ha spinto a mollare tutto per fare l’artista?  

 

Quando mi sono trasferito a Londra, facevo altri lavori e contemporaneamente dipingevo. Il primo lavoro che ho fatto qua era quello di friggere i polli da Nandos, che è una catena di pollo fritto. Però a un certo punto avevo una brutta sensazione mentre stavo lì, a lavare i piatti o a friggere il pollo, oppure a fare il face-painting in un centro commerciale. Mi dicevo: “Cazzo, dovrei dedicarmi al mio lavoro artistico e non ho più tempo. Perché sto qua a fare questa cosa?”

 

 

 

Lasciare le sicurezze per fare l’artista è una scelta molto coraggiosa. 

 

Sì, decisamente, intraprendi un viaggio inevitabilmente da solo.
E poi c’è un aspetto particolare nel lavoro d’artista: si hanno momenti di grande successo e poi il nulla. Un giorno mi capita di salire su un aereo e andare dall’altra parte del mondo ad esporre… poi quando torno, non ho nessuna commissione né niente da fare. E allora inizio a pensare: “Cazzo, forse è ora che mi trovi un lavoro”.

Razionalmente lo so che io ormai sono andato troppo avanti per trovarmi un altro mestiere, questa sarà la mia attività per sempre. Però è una sensazione che non ti abbandona mai. Perché questo lavoro è talmente etereo in certi momenti che ti viene da pensare: “Oh, ma quand’è che smetterò di giocare? Quand’è che inizierò a mettere i piedi nella realtà?”

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Giacomo Bufarini (Run), 2015, mostra “Man is God”, allestita presso la Howard Griffin Gallery di Los Angeles. Courtesy l’artista.  

 

 

 

Giacomo, tu sei un grandissimo viaggiatore, ci racconti un po’ come il tuo rapporto con i viaggi?

 

I viaggi sono tutti incredibili, sempre. Credo mi diano un po’ di dipendenza. Invece che essere stanco, alla fine di un viaggio ho sempre voglia di ripartire subito.

È un privilegio viaggiare col proprio lavoro, una fortuna enorme. Negli ultimi 10 o quasi 15 anni ho quasi viaggiato quasi esclusivamente per lavoro e lo trovo più interessante rispetto ad andare in vacanza. Hai l’occasione per entrare nei luoghi in maniera diversa. Andando in vacanza in un paese straniero, non avrai mai a che fare con quello che vende i colori, non ti troverai ad entrare in comune per ottenere un permesso, o a cercare il sindaco di una città libanese per una firma. Invece, viaggiando per lavoro mi capitano tutte queste cose, che mi permettono di capire meglio i luoghi.

 

 

 

Considerando che la tua arte è vicina alla dimensione onirica del sogno, i viaggi influenzano il tuo immaginario artistico? 

 

Per alcuni aspetti il viaggio è come un sogno. Penso sempre al fatto che quando uno torna da un viaggio ha proprio tutte le memorie freschissime. Giorno dopo giorno iniziano a cancellarsi tutti i dettagli.

Ricordo, ad esempio, quando sono andato in Sri Lanka (io ho un rapporto speciale con lo Sri Lanka, ci sono andato ogni vent’anni nella mia vita: a 5 anni, a 25 anni e quando ne ho compiuti 45). Mi ricordo che quando sono tornato da là parlavo a macchinetta di ogni dettaglio di quello che mi era successo. Il giorno dopo però, già i dettagli erano la metà e dopo due giorni erano ancora meno. Piano piano, tutto si scorda. Per questo il viaggio è proprio come un sogno.

Per ricordarsi i sogni, io uso un metodo che ho trovato su un libro: bisogna tenere carta e penna proprio di fianco al letto, scrivere il sogno deve essere la prima cosa che si fa appena svegli. Perché se prima ti alzi, ti metti le mutande o ti lavi i denti, il sogno inizia già a cancellarsi. In questo libro si consiglia di scrivere subito senza curarsi né dell’ortografia né della calligrafia, perché se già pensi a come si scrive una parola o alla punteggiatura, cancelli il ricordo. Deve essere proprio una roba estremamente rudimentale e spontanea.

Con i viaggi è un po’ la stessa cosa.

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Giacomo Bufarini (Run), 2021, Dakar, (Senegal). Courtesy l’artista. 

 

 

 

Quindi le tue immagini nascono dai tuoi sogni oppure da riferimenti fotografici, da qualche spunto autobiografico, da pensieri o da storie che leggi? Da dove arrivano?

 

Ma per farla più semplice, da tutte queste cose che hai appena citato. Siamo un po’ la somma di tutto quello che abbiamo vissuto, no?

Viene tutto da questo calderone che abbiamo dentro, magari per salvarci, per semplificare le cose. Quindi da lì un po’ avviene un po’ la ripetizione, è l’approfondimento di una cosa che hai fatto. Poi in questo mestiere ci si basa un po’ su quello che pensano gli altri, cioè su quello che tu ritieni che gli altri pensino di te, anche questo influisce.

 

 

 

In particolare la tua arte sembra fatta di relazioni con gli altri. Quanto è importante il rapporto con l’osservatore?

 

Sì, assolutamente, altrimenti non dipingerei per strada! Guardate anche lo studio in cui lavoro: è tutto in vetrina. È una cosa anche stressante perché non sono mai da solo nella mia intimità a creare, c’è sempre qualcuno che mi guarda. Questa cosa a volte è un po’ pesante, però io sia per abitudine sia per attitudine, va a finire che sono sempre su una finestra.

A volte vorrei più intimità, però sono sicuro che se fossi isolato mi sentirei troppo solo. Insomma: io ho bisogno degli altri.

Quando dipingo sui muri, il rapporto con la gente nella performance è importante. Io aspetto proprio che le persone si fermino a parlare. Spesso è la gente che dà il senso al dipinto: durante la performance nota qualcosa, me lo comunica e il dipinto da quel momento in poi cambia.

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Giacomo Bufarini (Run), 2017, Alay (Libano). Courtesy l’artista.

 

 

 

 

Ci racconti un’opera che per te è particolarmente importante? Una in cui ti riconosci.

 

The Thinker Child (Il bambino pensante), un’opera che ho fatto nel 2018 a Croydon, cioè un quartiere molto grande che si trova a sud di Londra. L’ho realizzata per un Festival che aveva organizzato una galleria che si chiama Rise Gallery. Mi hanno assegnato una parete di un edificio gigantesco, di sette piani, che era il vecchio palazzo di smistamento delle poste di tutto il sud dell’Inghilterra. Oggi è un palazzo abbandonato e dentro sembra tipo un dungeon, tutto buio e con le finestre murate. C’era solo un custode che viveva dentro un container in questo palazzo, con una piccola televisione e una brandina. Praticamente il suo compito era assicurarsi che la gente non occupasse lo stabile.

Ho raffigurato una grande anima di un bambino, che arriva fino al cielo e tiene un pensiero. È un essere gigantesco, nudo, che ha questa Luna nella fronte perché pensa agli astri, a quello che c’è di fuori, al di là dei problemi terreni che abbiamo noi. Rappresenta un po’ la naturalezza dell’essere. È una creatura molto grande eppure molto leggera.

Subito dopo la realizzazione mi hanno intervistato su Radio One Uk, perché era visibile da due stazioni dei treni ed era apparso così, gigantesco, bianco, come per magia.

E’ stato un bel lavoro. Anche se sono passati un po’ di anni, mi piace ancora molto.

Opera di Run Giacomo Bufarini,

Giacomo Bufarini (Run), “The Thinker Child”, 2018, Croydon (Londra). Courtesy l’artista.

 

 

 

Ringraziamo Giacomo Bufarini per la bellissima chiacchierata e la gentile concessione delle immagini!

Ti invitiamo a seguirlo sulla sua pagina Instagram.

 

 

 

 

 

 

Se vuoi conoscere le testimonianze di altri street artists italiani interessanti, potrebbero piacerti anche le interviste ad About Ponny, a Loste, a Emeid e a Nicola Alessandrini.

Se invece vuoi conoscere la ricerca artistica di alcuni street artists italiani, vai agli articoli “I mostri di Ericailcane siamo noi e “Nel terzo occhio di Bibbito.

Per rimanere aggiornato sui progetti più interessanti legati all’arte urbana bolognese, ti consiglio di leggere “Rusco Zine: dalla parte degli street artists.

 


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Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.
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