La Post Internet Art, nel 2019, è approdata anche alla Biennale di Venezia, reclamando la propria esistenza. Esiste eccome, così come esistono le vite secondarie su Second Life, il traffico di organi nel Deep Web e gli Hikikomori che rifiutano un contatto umano se non mediato da un pc.
Smettetela di uscire di casa. Non è più necessario.
Era un giorno qualsiasi del 2006 quando Penelope Umbrico ha sentito l’impulso di uscire e fotografare un tramonto romantico. Prima di farlo però, le è venuta la curiosità di controllare quante fotografie corrispondessero al tag Sanset su Flickr: erano 541.795 già allora, solo su quell’unico sito. Un quantitativo destinato ad aumentare esponenzialmente di giorno in giorno. Valeva davvero la pena aggiungere un’altra immagine a quell’infinito repertorio?[1]
Penelope ha pensato di no e, dal collage di tanti tramonti scaricati da internet, nasce il suo lavoro Suns form Flickr. Più che un’opera la sua è una presa di posizione: bisogna smettere di produrre immagini, ce ne sono già troppe ad inquinare il nostro repertorio visivo. È ora di iniziare a riciclarle e analizzarne il contenuto.
Sunset from Flicker di Penelope Umbrico. Nonostante l’artista non faccia ufficialmente parte della Post Internet Art, in questa opera utilizza una delle tecniche più abituali di questo movimento: non produce immagini ma ricicla quelle già esistenti sul web, attribuendogli un nuovo significato.
La post internet art è una forma artistica che analizza gli effetti di internet sulla vita umana, sull’estetica e sulla società. Spesso si tratta di ready made che obbligano a guardare cosa sta succedendo nel mondo online, quale tipo di disagio sta emergendo.
La nostra vita iperconnessa ci sottopone a nuove problematiche, come lo sfocarsi dei confini della nostra identità, la perdita di concezione di cosa è reale e cosa è rappresentazione della realtà.
Gli artisti si appropriano delle immagini e delle tracce che gli utenti lasciano in Rete, le riassemblano e ce le buttano in faccia, mostrando in che stato pietoso sono ridotte la nostra dignità, la nostra sicurezza e la nostra coscienza morale.
Infatti, ciò che emerge nelle opere della Post Internet Art è un collage violento, che dipinge una società corrotta, viscida e insicura. Portano alla luce realtà che difficilmente mettiamo a fuoco, come quella dei Bitcoin, degli hikikomori, del traffico d’armi, delle perversioni sessuali, le storie di chi ha rinunciato alla vita reale per trasferirsi su un video gioco online.
Ryan Trecartin, con i suoi video rappresenta il passaggio al transumano, ad una umanità pesantemente condizionata da internet e dal digitale, che anziché favorire una eventuale evoluzione, sembra aver causato una grave regressione.
Si inizia a parlare ufficialmente di Post Internet Art intorno al 2010, anno in cui Katja Novitskova pubblicò il suo libro-opera, Post Internet Survival Guide. Il testo contiene opere e testi di numerosi artisti, tutti impegnati in un’unica grande riflessione: cosa significa essere un essere umano oggi? L’obiettivo di questa guida è quello di fornire una guida di sopravvivenza che aiuti a sviluppare le abilità di base per destreggiarsi tra i flussi d’informazione e gli stimoli frammentati a cui la routine online quotidiana ci sottopone.
In realtà, credo sia più giusto considerare la Post Internt Art la naturale evoluzione della Net.art, cioè la prima forma d’arte online. Infatti, alcuni autori hanno preso parte ad entrambe i movimenti.
La netta differenza tra questi due movimenti artistici sta principalmente nel rapporto con la Rete stessa: se per la Net.art la internet rappresentava uno spazio democratico e decentralizzato in cui fuggire al controllo, la Post Internet Art vive internet come una fonte di disagio e frustrazione che opprime l’uomo contemporaneo.
La Post Internet Art nasce proprio come presa di coscienza, da parte degli artisti, di quanto fosse sbagliato e ingenuo concepire internet come uno spazio libero e fuori dal controllo (tipica della Net.art). Il potere ha il monopolio totale della Rete, questa non è una nostra alleata ma l’artefice dell’annientamento della nostra privacy, del totale controllo dei nostri dati, contatti, spostamenti, orientamenti ideologici e pulsioni fisiche. È la realizzazione del grande fratello orwelliano.
Insomma, invece che essere uno strumento di liberazione, la tecnologia è diventata la nostra peggiore gabbia.
Cory Arcangel, “Vari giochi self-bowling (aka Beat the Champ)”, 2011, Whitney Museum. L’artista ha hackerato “vari giochi di bowling” (per console Atari 2600 e Nintendo GameCube). Il gioco impone di lanciare la palla nella grondaia di una pista da Bowling, senza avere nessuna possibilità di vincere. “Ma lanciare una palla in grondaia è solo umiliante. Questo è ciò che rende il lavoro così ridicolo, ma anche triste e persino opprimente. All’inizio il fallimento sembra divertente, poi si ribalta.” afferma l’artista, concordando con Andrea K. Scott che definisce l’opera “un rituale di isolamento e inutilità”.[2]
Al contrario della Net.art, che è fruibile solo online, la Post Internet Art ha quasi totalmente abbandonato la Rete: vive negli spazi espositivi classici (gallerie e musei) perché ricerca una riflessione esterna sul nostro vissuto iperconnesso, è un riflesso di noi stessi su cui meditare.
Un esempio chiaro di questo andamento che parte dal web verso il mondo reale è l’opera Random Darknet Shopper di Mediegruppe Bitnik.
Si tratta di un bot programmato per fare acquisti sul deep web (il mercato nero online) scegliendo a random tra gli articoli e spedendoli in galleria. Un lavoro che ha messo in grossa difficoltà i galleristi[3] e a disagio il pubblico, dato che insieme a vestiti di grif tarocche e microspie, sono apparse anche chiavi passpartout dei vigili del fuoco (che aprono la maggior parte delle porte anche blindate e non dovrebbero assolutamente essere in circolazione) e barattoli di droga (ecstasy, per la precisione)[4].
Ma sarebbe potuta andare peggio, dato che nel deep web c’è un ampio traffico pedopornografico, di armi, identità false e, pare, addirittura di organi. L’intento dell’opera era proprio quello: far emergere quanto sia veloce e prolifero il traffico illegale grazie alla Rete e quanto facilmente chiunque possa accederci con un semplice dispositivo. Uno di quelli che hanno in tasca anche i nostri figli, i nostri fratelli e i nostri nipotini.
“Factory of the Sun”, installazione di Hito Steyerl, Padiglione Germania 2015, Biennale di Venezia. L’opera ripropone le condizioni ideali per un bombardamento mediatico: un grande schermo inclinato di 45° sugli spettatori adagiati in posizione passiva (sdraiati su comodi sdrai). Il video propone un immaginario lucido e patinato tratto del mondo della pubblicità commerciale.
Gli artisti non disdegnano l’uso di pratiche illegali di hacking al fine di creare le loro opere. Ne sono da esempio i lavori come The Other di Eva e Franco Mattes, oppure The Dating Broken di Joana Moll. In questi casi, gli artisti hanno proiettato in galleria i dati sensibili di milioni di utenti, provenienti direttamente dai loro pc.
Ciò significa che, entrando in un’esposizione, potreste trovare proiettate su un’enorme parete le vostre foto personali, username, orientamento sessuale e credenziali. Lo scopo delle opere è evidente: dimostrano la totale perdita di privacy che regna sovrana e quanto le informazioni che immettiamo su un dispositivo elettronico o, ancora peggio, online, siano completamente fuori dal nostro controllo.
Eva e Franco Mettes (protagonisti indiscussi anche della Net.art e dell’Hacker art), “The Others”, 2011. Uno slide show costituito da circa diecimila fotografie rubate da diversi computer con tecniche di di hacking, nella totale inconsapevolezza degli utenti a cui queste immagini appartengono. Vengono proiettate con la colonna sonora di canzoni provenienti dai medesimi dispositivi. Nessuno ti garantisce che, tra le varie foto, non ci siano anche le tue!
Tra gli artisti c’è un grande varietà di ricerche: da chi esplora e manipola i motori di ricerca studiando l’impatto politico e sociale come Gretchen Andrew, a chi analizza le dinamiche del bombardamento mediatico come Hito Steyerl, a chi esplora il mondo sotterraneo e anarcoide delle cripto valute e dei Bitcoin come Simon Danny.
Diversi artisti poi si calano nei panni di alter ego virtuali ed esplorano, o ricreano, il mondo dei video giochi online, portando a galla realtà davvero impensabili.
Jon Rafman è uno degli esponenti più interessanti di questa corrente, a parer mio.
Le sue opere evocano un isolamento disperato e totale, specchio di una società che ha permesso la nascita di fenomeni come quello degli Hikikomori[5]. Solitamente i suoi lavori sono veri e propri ready made provenienti dal Deep web, da videogiochi online o da Google Street View.
Una delle sue opere più celebri è ambientata su Second Life, un mondo virtuale nel quale l’artista si muove attraverso il proprio avatar, stringendo relazioni con altri esseri umani provenienti da tutto il mondo. Questo lavoro immortala la vita segreta della gente online, portando a galla un mondo di perdizione, perversioni sessuali e devianze inconfessabili.
“Dream journal”, video di Jon Rafman. Protagonista del video è una popolare eroina dell’artista chiamata Xanax. La ragazza viene condotta in un’avventura non sense e costretta a sopportare torture di ogni genere.
Altri lavori di Jon Rafmann sono delle rielaborazioni di video giochi che diventano incubi ad occhi aperti. I protagonisti vengono condotti verso avventure umilianti e degradanti, senza un fine né un senso specifico. Il gioco smette di essere intrattenimento e diventa parte di delle numerose dipendenze a cui siamo soggetti. È pauroso e deprimente. È un labirinto da cui è impossibile uscire, vicino al mondo delle droghe e degli antidepressivi. Infatti, le tinte di queste avventure grafiche assumono le stesse deformazioni ottiche dovute all’abuso di psicofarmaci.
I personaggi di Rafman sono costretti a vivere incessantemente viaggi orribili e a non trovare riposo. Ciò rientra nella visione distopica elaborata da Rafman, un mondo in cui “gli esseri umani sono trasformati in avatar senza voce, che subiscono torture e non possono morire”[6].
Il suo lavoro esprime alla perfezione lo spirito di Post Internet Art: ci trasmette un’aria malata, ha un gusto acido e crudele. Difficilmente ci troviamo sereni e a nostro agio davanti a queste opere che traggono il proprio materiale direttamente dal lato più oscuro e segreto della nostra vita, quello di cui generalmente proviamo vergogna.
Ci è difficile guardarle ma ne rimaniamo anche elettrizzati e ipnotizzati, così come ci succede davanti a un video orribile da cui non riusciamo a staccare gli occhi. E che, inevitabilmente, ci insegna qualcosa su di noi e sul mondo che ci circonda.
Gli artisti più noti della Post Internet Art sono: Joana Moll, Mediengruppe Bitnick, Petra Cortright , Benjamin Grosser, Lucky PDF, Jon Rafman ,Cory Arcangel, Ryan Trecartin , Amalia Ulman , Harm van den Dorpel, Hito Steyerl, Artie Vierkant e Addie Wagenknecht, Eva e Franco Mattes, Simon Danny e Gretchen Andrew.
Approfondisci il tema della Net.art all’articolo “Net.art e Hacker Art: sogni e lotte della rete“.
Se invece vuoi conoscere l’etica della controcultura Hacker, legata alle tematiche della vita online, leggi “Hacker ed etica cyberpunk“
[1] Joan Fontcuberta, “La furia delle immagini”, ed. I Maverick, 2018, p. 36-37
[2] https://en.m.wikipedia.org/wiki/Cory_Arcangel
[3] L’opera Random Darknet Shopper” di Mediegruppe Bitnik è stata installata per la prima volta nel 2014 alla Kunst Halle Sankt Gallen, Galleria d’arte Svizzera. L’episodio narrato riguarda proprio questo evento: in seguito a un’accusa del pubblico ministero tutta la merce acquistata sul deep web è stata messa al vaglio della polizia scientifica e, successivamente, distrutta. L’accusa è poi stata ritirata poiché l’opera aveva l’intento di sollevare il dibattito pubblico su un problema esistente e non ha messo a repentaglio la sicurezza dei visitatori.
[4] Informazione tratte da http://digicult.it/it/hacktivism/mediengruppe-bitnik-random-darknet-shopper/
[5] “Hikikomori” è un termine giapponese che significa “stare in disparte” e indica un fenomeno dilagante tra gli adolescenti, in particolar modo giapponesi. Gli Hikikomori sono ragazzi che si rifiutano di uscire dalla propria camera, alle volte per anni, e comunicano con il mondo esterno solamente attraverso computer e dispositivi digitali.
[6] https://www.youtube.com/watch?v=9xFGC8C-4j8
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.