Sei stato alla mostra “Treasures from the wreck of the unbelievable” di Damien Hirst?
Dimmi, tu quando te ne sei accorto?
Quanto ci hai messo per capire che era tutto finto?
Ha senso continuare a parlare di questa mostra, a due anni dalla sua chiusura, perché le riflessioni che ha sollevato, a proposito di noi spettatori e delle strutture museali, non si sono affatto esaurite.
Damien Hirst, Skull of a Unicorn on the Seabed, Palazzo Grassi, 2017
Finalmente nessun animale morto né teschio riesumato dalla tomba. Quella volta Damien Hirst decise di utilizzare il suo contingente conto in banca per finanziare un progetto divertente, mettendoci tutti alla prova.
Si inventò una storia quasi plausibile: “è stata ritrovata un’antica nave romana affondata in mare aperto, carica di opere d’arte, di cui si narra in una leggenda.”
Poi ha fatto finta che fosse tutto vero.
Hirst ha progettato la sua truffa nel dettaglio: dai pannelli espositivi fittizi, al libretto guida, alle storie di provenienza delle opere fasulle. Tutto ciò per mettere alla prova la cultura dello spettatore: quanto tempo gli sarebbe servito per rendersi conto che qualcosa non quadrava?
Quanto tempo ci avrebbe impiegato per iniziare a diffidare di tutto ciò che stava leggendo?
Come avrebbe reagito rendendosi conto di essere stato ingannato?
Damien Hirst, The Severed Head of Medusa, Palazzo Grassi, 2017. Foto di Thom Ouellette
La vera rivoluzione di Treasures from the wreck of the unbelievable, sta appunto nella sua organizzazione. Noi, stanchi e pigri osservatori, siamo abituati a delegare il significato di ciò che stiamo guardando ai pannelli espositivi, ai fogli di spiegazione, alle didascalie. Sappiamo che le mostre di arte contemporanea DEVONO essere supportate da una serie di materiale informativo che ci spieghi cosa stiamo guardano. Nel caso di questa mostra, ogni pannello, nota, titolo e didascalia, rompe questo dogma, collaborando con l’inganno dell’autore.
Tutti gli strumenti informativi a nostra disposizione mentono: fingono che gli oggetti esposti siano relitti antichi, nonostante ci siano delle incongruenze storiche e stilistiche.
La mostra diventa così un buon modo per testare la nostra cultura e il nostro spirito d’osservazione, mettendoci nella posizione di dover ragionare con la nostra testa, diffidando di tutte le indicazioni.
Demon with Bowl, Palazzo Grassi, 2017. Damien Hirst fornisce una falsa indicazione, suggerendo che questa statua sia un’ingrandimento di un bronzo più piccolo, raffigurante un demone mesopotamico simile a Pazuzu.
Un disorientamento elettrizzante, ecco la sensazione che caratterizzava questa mostra. L’osservatore era colto da un brivido d’entusiasmo perché finalmente si sentiva al centro dell’attenzione: l’autore lo stava sfidando personalmente.
Davanti a ogni opera ci siamo ritrovati a riflettere, a valutare, a girarle intorno, come se fossimo stati degli archeologi. S’innescava un meccanismo di gioco, una caccia al tesoro. Nessuno ci confermava le nostre impressioni, nessun esperto palesava la finzione. La responsabilità di capire era tutta nostra.
Questo approccio è rivoluzionario se consideriamo che essere uno spettatore è prima di tutto un’attitudine mentale. Infatti, come spiega Maurizio Maggi¹, siamo sempre più portati a vedere la cultura come una forma di spettacolo, lasciando tutta la responsabilità organizzativa e interpretativa in mano agli addetti ai lavori. Dovremmo fare più attenzione a questo meccanismo perché, abituarsi a un ruolo passivo durante la fruizione, rende più facile mantenere un ruolo passivo durante alla decisione, allontanandoci sempre di più dalle nostre responsabilità civiche2.
Questa mostra geniale ci ha obbligato ad abbandonare un atteggiamento apatico e ad osservare con attenzione. L’apatia non era concessa: abbiamo dovuto mettere in campo il nostro intuito e le nostre competenze.
Damien Hirst ha inventato il ritrovamento di una nave leggendaria, appartenuta ad un grande collezionista d’arte d’epoca romana. Questa sarebbe stata restituita al mondo nel 2008, dopo due secoli che se ne stava sul fondo dell’oceano, carica di opere d’arte.
Per rendere il gioco funzionante, Hirst dichiara, all’ingresso del museo, che alcune delle statue presenti in mostra sono reperti originali, mentre altre sono rivisitazioni dell’artista. L’osservatore attento, dopo un’analisi dell’esposizione, capirà che di originale non c’è proprio nulla e che tutta la faccenda del ritrovamento archeologico è stata inventata di sana pianta. Per poter arrivare a questa conclusione dovrà però analizzare e osservare tanti piccoli dettagli e incongruenze presenti nelle opere.
Come smascherare la natura fittizia opere
Mentre alcuni manufatti erano palesemente finti, altri invece avrebbero potuto sembrare originali. L’artista aveva lasciato però degli indizi su ogni opera, delle incongruenze che svelano la loro natura fittizia. Ecco a cosa bisognava prestare attenzione:
1. Incoerenza stilistica
Gli stili delle opere non corrispondono alle epoche storiche dichiarate. Ad esempio, la prima statua in cui ci si imbatte entrando a Palazzo Grassi, che vorrebbe essere l’ingrandimento di una statuetta di un dio mesopotamico simile a Pazuzu, quindi di epoca assiro-babilonese, è di evidente matrice classica.
Stesso tipo d’incongruenza vale per i materiali utilizzati, chi l’ha mai vista una sfinge di marmo nell’antico Egitto?
Damien Hirst, Sphinx, Punta della dogana, 2017
2. Incoerenza storica
La storia narra di una barca appartenuta ad un collezionista d’arte tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo. Com’è possibile che ci fossero sopra, ad esempio, statuette di Buddha e oggetti del popolo Maya?
Il Buddismo non era ancora contemplato e la scoperta dell’America era assai lontana.
Damien Hirst, Calendar Stone, Punta della Dogana, 2017. Un ipotetico calendario Azteco.
3. Dettagli nascosti
Hirst ha nascosto in maniera accurata una serie di dettagli divertenti da trovare. Ad esempio, tra la collezione di spade visibile a Punta della Dogana, sotto le incrostazioni di coralli, si intravvedono le marche giocattolo delle spade di plastica vendute in tutti i supermercati.
Allo stesso modo, c’erano curiosi dettagli sulle sculture, come pearcing al capezzolo e piccoli tatuaggi raffiguranti pistole, un po’ troppo moderni per appartenere agli antichi egizi.
Damien Hirst, Cerberus (Temple ornament), Palazzo Grassi, 2017. Sul corpo del mostro infernale sono incisi geroglifici e scritte in graffito copto egiziane. Peccato che Cerbero non abbia mai fatto parte del culto egizio.
Insomma, questa volta Damien Hirst è riuscito a sconvolgere non solo il pubblico ma anche tutto l’assetto museale. E lo ha fatto in modo intelligente. Grazie a un’idea forte ci ha tirato fuori dal nostro ruolo statico di “osservatori della cultura”, metterci sulle tracce di una storia da scoprire e di un arcano da sciogliere.
Per una volta è stata una vera gioia sentirsi provocati.
¹ I musei, Vittorio Falletti e Maurizio Maggi, ed Il Mulino, Bologna, 2012
2 Maurizio Maggi, I musei, Vittorio Falletti e Maurizio Maggi, ed Il Mulino, Bologna, 2012, p.176
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.