Alessandro Giovannini, in arte Nut, è uno tra i primissimi a portare l’arte urbana nella Romagna dei primi anni ’90. Da allora non ha mai smesso di cercare nuovi linguaggi, nuovi approcci, nuove forme per stare al mondo.
Insegue un sogno ostinato e profondo: quello di una libertà vera, incarnata, che gli permetta di mostrarsi per ciò che è veramente. Una libertà capace di resistere ai vincoli e alle fatiche del nostro tempo.
“La verità è che anche nel mio lavoro in strada non ho mai trovato una totale libertà di espressione. Mi piacerebbe arrivare a scegliermi in autonomia il muro, la tecnica e i tempi, agendo in totale libertà ogni singolo passaggio. Poi però mi chiedo: se ci arrivassi davvero a questa libertà saprei starci dentro?”
Cit. Nut[1]
Come ti sei avvicinato alla Street Art?
Da giovane ho avuto la fortuna di ammirare il panorama dei graffiti lungo i muri della linea ferroviaria che collegava Lugo a Bologna. Ricordo ancora che, quando il treno cominciava a rallentare per entrare in stazione, si potevano vedere i primi murales, che all’epoca erano veramente opera di gente che osava. C’era questa immagine di donna con una bomba in mano, molto stilizzata, che mi colpì sopra le altre. Era un pezzo iconico. Era il ’92, avevo 13 anni, e non avevo ancora preso la bomboletta in mano. Ho cominciato con i graffiti di lì a un mese.
La prima scritta che feci fu “STOP”. Scrissi su un muro privato qui a Massa Lombarda, a casa di uno; non penso che l’abbia presa bene all’epoca.
In linea generale sono più legato al figurativo e al reale, piuttosto che all’astratto o alle tag.
Come mai proprio questa scritta? Cosa rappresentava per te?
Un invito a fermarsi a riflettere. È un tema che mi appartiene da sempre, sin dai temi delle elementari. C’è troppa frenesia nel mondo e nella vita di tutti noi.
Personalmente ho cercato di usare la mia frenesia interiore in modo positivo, non per vivere la vita nella fretta, ma piuttosto per saltare quello che si può saltare: percorrendo le strade che mi permettono di raggiungere i miei obiettivi più velocemente, evitando il più possibile di perdere tempo.
Quando eri agli inizi, cosa ti ha spinto a lavorare nello spazio pubblico?
L’adrenalina. Lavoravo di notte, illegalmente e in condizioni di luce molto sfavorevole, quindi sono diventato piuttosto veloce.
Adesso invece ho invertito i miei ritmi: lavoro la mattina presto e vado a letto presto la sera. Un tempo stavo sveglio anche tre giorni di fila.
Puppets di Nut. Courtesy l’artista.
Quindi sei partito dalla strada per poi arrivare alle gallerie e alle mostre. Nonostante ciò, hai mantenuto i cartelli stradali e il materiale di recupero sottratto alle fabbriche abbandonate nel tuo lavoro di studio. Perché hai voluto mantenere questa relazione con la strada?
Ho cercato di variare i supporti, sia per trovare un’alternativa alle solite tele, sia per cercare di usare quello che trovo: è un modo alternativo di progettare le opere che ti costringe a pensare, adattando l’idea al supporto. Oggi c’è troppo di tutto: il riciclo è una necessità sia economica, sia ambientale. Ma è anche un modo per costruire qualcosa di alternativo.
Non mi limito mai a usare solo materiale di scarto: ho sempre la necessità di trovare qualcosa di vecchio che abbia in sé una storia. L’oggetto di scarto non avrebbe forza se non fosse unito a un pezzo antico. In questo senso lavoro con ciò che la società scarta e con ciò che resta dai nostri eccessi.
Guardando il tuo lavoro ho avuto l’impressione che tu sia un artista con tante anime. Sei estremamente poliedrico: la tua azione spazia in campi diversi, i tuoi soggetti sono molto diversificati, così come sono tante le tue tecniche.
Cosa ti spinge a lanciarti in tanti settori, dalla grafica alla serigrafia, dalla pittura alla scultura?
È il disegno che unisce tutto. Ha tantissime applicazioni e ti permette di entrare in tutte le tecniche che hai citato.
Se dovessi scegliere una tecnica a cui sono più affezionato, direi che è il disegno nero su bianco: una tecnica semplice che ti permette di agire dovunque e in qualunque momento, bastano anche un foglio e una penna. Io non amo le etichette. Non ho mai amato definirmi un Writer, perché escluderebbe tutto il resto, mentre io voglio includere e spaziare in quello che faccio. Ma se proprio dovessi darmi una definizione, preferirei “disegnatore”, perché con il disegno posso infilarmi in tutti gli ambiti e sperimentare.
Sei una persona che disegna in continuazione?
No, in continuazione no, anzi sto delle settimane intere senza fare niente. Poi ho questi periodi, che sono molto frequenti, dove sono iper-produttivo: ho bisogno di fare tantissime cose. Produco diversi lavori in contemporanea, per non restare fermo mentre aspetto i tempi di asciugatura.
Nelle tue opere utilizzi spesso elementi della cultura pop. In particolare, sembri attratto dalla dimensione dei cartoni animati. Cosa ti attrae di questo mondo e perché ti servi di questo linguaggio?
Beh, è un linguaggio che, nonostante la sua semplicità, ha tanti messaggi subliminali di cui ti rendi conto quando diventi adulto. Quindi mi piacciono perché sono semplici e complessi allo stesso tempo.
Nel corso degli anni ci si rende conto che anche le favole che ascoltiamo da bambini sono complesse. Da adulto sei più portato a ricercarne la morale e a capirne il significato vero.
Quindi questo linguaggio è un modo per studiare meglio quello che hai vissuto e quello che hai osservato fin da bambino?
Esatto. Sono cresciuto con i cartoni e i fumetti. Oggi non ci sono più i cartoni dei nostri tempi, anche questo linguaggio ha subito cambiamenti di natura etica ed estetica.
I soggetti più pop, come le tue caramelle gommose, sono sempre legati alla tua infanzia oppure nascono da una ricerca diversa?
No, in realtà mi piacciono le loro trasparenze. I giochi di luci e ombre le fanno sembrare delle pietre preziose, nonostante siano solo delle gommose. E questo mi ha fatto venire voglia di mettermi alla prova ridisegnandole.
Hai fatto anche delle serie che con la dimensione dei cartoni animati o della giocosità non hanno nulla a che fare. Ad esempio, le tue nature morte, soggetto che rappresenti in maniera molto più realistica, tanto da sembrare quasi frutto di un altro autore per distanza stilistica e tecnica.
In soggetti come questi cosa ricerchi e perché necessitano di un altro tipo di sguardo?
Lo sguardo sulla realtà è sempre quello, cambia la natura di quello che ho davanti. Rappresentare il volume del melograno in maniera dettagliata, cogliendone la forma, mi fa capire la natura di quello che osservo. Questo mi permette poi di spostarmi sui soggetti surreali e riportare quello che ho imparato attraverso la rappresentazione dal vero.
Io amo coltivare i soggetti che poi rappresento, come le zucche. Questo in un qualche modo mi permette di seguire il processo di crescita di quello che disegno: tocco, taglio, innaffio, vivo, infine lo rappresento e infine, lo mangio. Cerco di capire la natura di quello che ho davanti e non mi limito a guardarlo con gli occhi, ma cerco di farlo mio.
Mi sembra di capire che hai un rapporto speciale con gli elementi della natura. Anche il tuo nome “Nut” vuole dire “nocciolina” e deriva da lì, giusto?
Le formazioni della natura sono bellissime: le venature delle foglie, così come le trame del guscio della nocciolina. Sono delle opere in sé stesse. La nocciolina è una cosa piccola, semplice, che costa poco. Mi ci sento affine.
Guardando i tuoi lavori si comprende che le tue immagini sono quasi delle reazioni a quello che ti accade nella vita. È corretto?
Eh sì, prendono forma soprattutto a partire da quanto accade di negativo. La serie del Don Chisciotte, per esempio, nasce da un problema di stalking che sto subendo oramai da dieci anni, nell’arco dei quali mi sono sentito di combattere contro i mulini a vento. Ho avuto bisogno di lavorare sulla luce, quindi sono partito da un supporto di carta nero e ho tirato fuori le luci e i volumi usando solo il bianco.
Questo mi è servito per dare forma a una battaglia interiore molto difficile.
È corretto dire che le tue opere hanno una connotazione terapeutica?
Assolutamente sì. Anche quella che porto in strada ce l’ha.
Se ci penso, anche le mie immagini psichedeliche più giovanili esorcizzavano un senso di disagio. Per questo sarebbe bello portare dei ragazzi con problemi di aggressività a dipingere per strada: potrebbe davvero aiutarli a calmarsi. L’arte per me è stata terapeutica, tant’è vero che mi ha aiutato ad affrontare tutti i periodi più difficili della mia vita.
Ci hai spiegato che tutta la tua arte si nutre di quello che ti accade e in un certo senso ti permette di esorcizzare il quotidiano. Mi sembra di notare un sottotono di speranza nei tuoi soggetti surreali. È così?
Sì, è così. Qui, per esempio, ho rappresentato un uccello senza occhi, bloccato in una gabbia. Si nutre del cibo che gli viene dato dall’esterno. Questo uccello siamo noi, che non vediamo veramente quello che abbiamo intorno e che mangiamo solo quello che ci viene fornito dall’esterno. Però questo uccello è anche resiliente, tant’è vero che è entrato a far parte della gabbia e secondo me fra un po’ esce.
Nut, “Eyeskeeper”, 2013. Courtesy l’artista.
Ho visto che hai lavorato nel mondo dell’illustrazione e dei libri per bambini. Deve essere un mondo molto affascinante che lascia molto spazio alla sperimentazione. Ci racconti la tua esperienza e il tuo approccio con l’illustrazione?
Secondo me invece è proprio il contrario. Quando lavori nell’ambito dell’infanzia non hai mai molto margine di libertà. Il linguaggio, ciò che rappresenti e come lo rappresenti, diventa molto importante. Ma il discorso sul mio lavoro nell’ambito dell’infanzia è un argomento che non mi sento di trattare perché mi mancano gli strumenti pedagogici per poterne discutere.
Quello che posso dire è che i bambini mi danno sempre molta soddisfazione, apprezzano molto quello che faccio. Ma non do mai loro alcuna spiegazione sui miei lavori, perché approcciarsi all’infanzia richiede preparazione e una maggiore responsabilità.
Tra le opere che hai prodotto in studio c’è una serie che ti piace particolarmente o che maggiormente ti racconta?
Le opere che nascono in studio rappresentano una mia dimensione più intima, a differenza di quelle in strada che sono una “forma più leggera” di espressione. Questo le rende tutte importanti, ognuna a modo proprio.
Lavorare in questo modo mi permette di capire delle cose di me, di esorcizzare malesseri, di trovare vie di uscita da momenti difficili. Quindi non ce n’è una più importante. Lo sono tutte a modo loro.
Progetti futuri?
Nel più breve termine, un cortometraggio che vede come protagonista una zanzara. Andrò poi a tenere delle lezioni a scuola e poi organizzerò la curatela di una mostra collettiva intitolata Ligno Petra Foco che inaugurerà il 28 giugno 2025 alle 12:00, nella sede di Castel Del Rio dentro agli spazi del Ponte Degli Alidosi.
Nut, “Two Popes”, 2025. Courtesy l’artista.
Ringraziamo Alessandro Giovannini per la bellissima chiacchierata e la gentile concessione delle immagini!
Vi invitiamo a seguirlo sul suo sito notnut.it
e sulla sua pagina Instagram
Se vuoi conoscere altri street artist romagnoli, vai agli articoli: Intervista ad About Ponny, leggenda della stencil art, oppure a Dalla parte dei mostri: Il mondo oscuro di Ragno.
[1] Nut, affermazione rilasciata durante la nostra chiacchierata, raccolta da Catalina T. Salvi e Chiara Righi.
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