La Biennale di Venezia 2024, a cura di Adriano Pedrosa, ci dà l’occasione di poter osservare opere d’arte che provengono da tutto il mondo. Con un solo giro a Venezia abbiamo la possibilità di sentire il polso della situazione planetaria, lo stato d’animo generale. D’altronde, se l’arte è lo specchio dell’animo umano, possiamo azzardare un’analisi e intuire quali sono i sentimenti che dominano in questo periodo storico.
Il tema di quest’anno è “Stranieri Ovunque” e ha portato gli artisti a esporsi su diverse questioni, sia politiche, sia individuali. Ecco quindi cosa ne è emerso.
Jeffrey Gibson, nel Padiglione America, mostra gli stereotipi kitsch a cui sono stati ridotti gli indigeni e la comunità queer dalla cultura di massa. Biennale 2024.
La scorsa Biennale, quella che si tenne nel 2022, ci aveva proposto tantissimi corpi. Corpi post-umani, corpi onirici, corpi traumatizzati. Le ricerche degli artisti sembravano girare tutte intorno alla ricerca di un’identità frammentata, pronta a rinascere in una nuova forma.
Al contrario, la Biennale di Venezia 2024, tende invece a proporci dei luoghi. Ci sono spazi colmi di significato in cui siamo invitati a girare, osservare e metterci in ascolto. Il tema di questa edizione è “Stranieri ovunque”, titolo che ha suggerito diverse riflessioni, fino alla creazione di spazi in grado di farci sentire estranei anche a casa nostra.
In generale, è stata una manifestazione molto impegnata socialmente, in cui penso di avere perso più tempo a leggere i pannelli espositivi e i comunicati che a guardare le opere. Infatti, gli artisti hanno portato alla luce situazioni problematiche poco conosciute, davvero interessanti. Ho notato che le ricerche hanno toccano spesso il tema dei conquistati e dei colonizzatori, delineando i volti delle vittime e dei carnefici. Si percepisce anche una forte voglia di uscire dai nazionalismi, solidarizzando con le vittime della globalizzazione e dei cambiamenti climatici.
Vi riporto le riflessioni che hanno caratterizzato questa edizione, da cui, come sono solita fare a ogni Biennale, cercherò di trarre le conclusioni.
Ione Saldanha, “Bambus”, esposti nel Padiglione Centrale dei Giardini alla Biennale di Venezia 2024.
Basta nazionalismo!
“Stranieri, per favore, non lasciateci soli con i danesi!” grida l’artista danese Superflex con i suoi cartelloni, implorando gli extracomunitari di non abbandonare la sua terra[1].
Mentre nel mondo reale l’estrema destra avanza in ogni luogo, alla Biennale si percepisce la necessità opposta: gli artisti invocano la libertà e uno stato di diritto senza patria e senza confini nazionali. Tutti espongono ovunque: il Padiglione della Danimarca ospita un’artista groenlandese, il Padiglione polacco un collettivo ucraino, quello dei Paesi Nordici ci parla di Cina e leggende cantonesi… insomma, la suddivisione nazionale della Biennale è stata sabotata e sovvertita!
Il Padiglione Svizzera esplica in maniera puntuale il concetto. L’artista Guerreiro do Divino Amor, percula ironicamente l’autocelebrazione che le politiche nazionaliste fanno dei nostri paesi, trasformando la cultura in un cliché sciovinista. L’artista non risparmia l’Italia e il Vaticano, che vengono spettacolarizzati con stereotipi religiosi super kitsch.
Questo sentirsi cittadini del mondo, senza patria, è ben espresso dalla presentazione che il Padiglione Corea fa del proprio artista, scrivendo: “Koo Jeong A è costantemente in orbita, vive e lavora ovunque.”
Bárbara Sánchez-Kane, “Prêt-à-Patria”, 2021. L’artista crea uno sfottò del rituale militare messicano destinato a onorare la bandiera nazionale, minimizzando l’idea mascolina di potere. Infatti, i soldati sono vestiti con lingerie di pizzo.
Indigeni e colonialisti
Viviamo nel mondo più globalizzato che sia mai esistito, in cui corrono le stesse mode in ogni paese. Beviamo le stesse bevande, frequentiamo gli stessi social e i nostri figli crescono guardando gli stessi cartoni animati, quasi ovunque. In quest’ottica, è interessante come il titolo della biennale “Stranieri ovunque” abbia condotto a una spasmodica ricerca di qualcuno che possa ancora sentirsi diverso.
I padiglioni nazionali ci hanno proposto un gran numero di artisti provenienti da piccolissime comunità e minoranze etniche, le poche ancora legate a una cultura millenaria, minacciate di estinzione. Ci troviamo quindi davanti ad artisti che provengono della comunità maori, agli operai agricoli delle piantagioni di Lusanga (Padiglione Olanda), dagli indiani d’America Aymara (padiglione Bolivia), agli Inuit (Padiglione Danimarca) e poi ancora di tanti altri gruppi indigeni. In loro riponiamo la nostra disperata ricerca di autenticità, fuori dalla monotonia del conformismo dilagante.
Dettaglio dell’installazione di Julien Creuzet nel Padiglione Francia. L’opera è dedicata alla Martinica, isola caratterizzata da una storia di colonizzazione, creolizzazione e migrazione. Oggi è popolata prevalentemente da cittadini neri discendenti dagli schiavi deportati in passato, anche per questo l’installazione è costruita con i detriti portati a riva dalla marea oceanica, metafora di queste vite in balia del mare e dei giochi di potere.
Non sempre questi artisti ci assecondano docilmente, ringraziandoci dell’invito. Alcuni di loro hanno risposto con opere piene di rabbia, mostrando con disprezzo l’oppressione a cui sono sottoposte le loro comunità locali. Ciò che chiedono è un processo di decolonializzazione delle loro terre, soprattutto da parte delle multinazionali. Mi soffermo sull’esempio lampante del CATPC che, in collaborazione con l’artista olandese Renzo Martens, ha esposto nel Padiglione Olanda. Si tratta d’indigeni che vivono nella terra del Losanga, in Congo, che stanno rivendicando gli ultimi lembi della loro “foresta sacra”, distrutta dalle piantagioni di una grande multinazionale. Sono stati privati della loro terra e, oggi, sono stranieri a casa loro[2].
Il CATPC, attraverso la vendita delle sue opere d’arte sta riacquistando alcuni ettari di terreno sottratto alla foresta distrutta, dimostrando come l’arte possa essere funzionale a una resistenza sociale. Le opere che propone alla Biennale 2024 non sono però affabili e carine ma piuttosto aggressive, poiché mostrano metaforicamente la sottomissione a cui il loro popolo è sottoposto.
I pannelli espositivi spiegano che la mostra è trasmessa in livestraem a Lusanga, poiché la popolazione non ha né i visti, né il tempo, né le risorse per recarsi a Venezia. Infatti, come delucida il primo pannello all’ingresso, si tratta di lavoratori schiavizzati per fornire beni ai Paesi Ricchi[3].
Il Padiglione Olanda ha ospitato il collettivo CATPC e Renzo Martens. Le sculture esposte sono realizzate con materiali naturali (tra cui il cioccolato raccolto nelle piantagioni) e denunciano la situazione del loro popolo del Lusanga, che lavora nei campi al servizio delle multinazionali. Grazie alla vendita dei loro manufatti artistici, il CATPC è stato in grado di comprare 200 ettari di terreno a loro sottratto (in cui sorgeva la foresta andata distrutta dalla multinazionale britannica Unilever), che ora stanno rigenerando e trasformando in agro-foreste.
La globalizzazione spaventa anche i paesi europei, strizzando l’occhio al consumismo di massa e facendo tabula rasa delle tradizioni locali. Le multinazionali hanno assunto la faccia dei conquistatori anche a casa nostra. Questo è denunciato chiaramente da Aleksandar Denić, che ha trasformato il padiglione serbo in una “Esposizione coloniale”, in cui l’Europa è solo una colonia delle multinazionali.
Contemporaneamente, lo statunitense Jeffrey Gibson ci mostra come i colonizzatori riescono ad annientare le minoranze etniche e sociali attraverso la cultura di massa. Mostra una visione degli indigeni come stereotipo kitsch, come se la loro identità fosse stata digerita dal mondo del consumo, diventando un buffo cliché commerciale. Le minoranze etniche e culturali sono state tramutate in una sagoma pacchiana che tutti abbiamo inconsciamente assimilato. Un immaginario così ridicolo è chiaramente destinato a minimizzare le loro lotte e il loro diritto d’esistere.
Jeffrey Gibson, Padiglione America, Biennale di Venezia 2024.
Crisi climatica e migratoria
Ci sono due minacce che tuonano in maniera spaventosa alla Biennale 2024. Una è la realtà dei migranti, sempre più disastrosa, indotta da guerre, povertà e desertificazione del suolo. Le esperienze traumatiche delle persone che rischiano la vita per fuggire dal proprio paese sono narrate dai Padiglioni del Panama, della Spagna, del Senegal, del Messico e tanti altri ancora. Alioune Diagne ha addirittura portato in mostra un’imbarcazione spezzata, un modello di piroga davvero precario, realmente utilizzato dai migranti più disperati per raggiungere l’Europa. Nel frattempo Bouchra Khalili ha cercato di rendere più poetici i viaggi dei migranti, ritrovando nelle loro tratte le costellazioni dell’astronomia antica.
Tra le cause delle migrazioni ci sono le guerre, come ci ricorda efficacemente il Padiglione polacco, in cui il collettivo Open Group ha realizzato una delle poche opere interattive della biennale. Qui infatti possiamo cimentarci in un karaoke ripetendo i suoni delle armi intonate dai rifugiati di guerra ucraini: è un mondo semplice per insegnarci a riconoscere questi rumori, perché in previsione di un mondo sempre più militarizzato saperli identificare può salvarci la vita.
Un’altra causa di migrazione è la crisi climatica, che gli artisti ormai da tantissimo tempo denunciano insistentemente. Tra i vari padiglioni che affrontano il tema ho apprezzato particolarmente quello tedesco, che, grazie alle opere di Yael Bartana, propone delle astronavi finalizzate a portarci lontano in caso di catastrofe ambientale. L’installazione è particolarmente riuscita perché la narrazione del futuro dell’umanità si incrocia con la storia di suo nonno, operaio morto a causa del contatto prolungato con l’Eternit.
Insomma, un rapporto malato quello tra uomo e natura, che ci vede privi di rispetto per noi stessi e per le altre forme di vita.
Isabel De Obaldía, “Selva”, Padiglione Panama. L’installazione ricrea la pericolosa giungla tropicale che si trova tra Colombia e Panama, che ogni anno viene attraversata da moltissimi migranti, molti dei quali non riescono ad uscirne vivi.
La casa sognata
Una delle prime cose che ho notato girando per la Biennale di Venezia 2024, è un insolito utilizzo di materiali domestici. In tantissimi padiglioni, le opere sono state costruite con oggetti d’uso quotidiano: cucchiai, spazzolini, cornici, vasi di fiori, guanti per le pulizie, bottiglie, padelle, cestini di frutta e chi più ne ha ne metta.
Questi oggetti vengono assemblati insieme fino a costruire qualcosa di nuovo. Ad esempio, nel Padiglione giapponese Yuko Mohri ha realizzato una grande installazione di oggetti domestici, che insieme a delle gocce d’acqua (ispirate alle perdite delle tubature), creano una sinfonia musicale.
Nel padiglione dell’Oman troviamo immagini stampate sul pane e maschere realizzate con i cucchiai, il Padiglione Albania ha le sembianze di un appartamento, nel Padiglione Messico c’è una tavola apparecchiata, nel padiglione dello Zimbabwe le sculture sono realizzate con spazzolini da denti e tubetti di colore vuoti.
Insomma, sembra che gli oggetti di casa si possano trasformare, diventando compagni inaspettati delle nostre giornate trascorse in appartamento. Proprio come le cornici dei quadri di Mariana Telleria che adornano i Giardini, finiscono per scomporsi e sovrapporsi, diventando alberi di un veliero pronto a salpare.
Moffat Takadiwa, dettaglio di un’installazione realizzata con i pulsanti di tastiera, spazzolini da denti e pezzi di stoffa. Padiglione Zimbabwe, Biennale di Venezia 2024.
La casa è percepita soprattutto come un luogo in pericolo, che subisce continue minacce politiche e ambientali, soprattutto in alcune zone del mondo. Ciò è palese nel Padiglione Taiwan, isola rivendica dalla Cina, in cui l’artista Yuan Goang-Ming ha creato delle videoinstallazioni che presentano degli accoglienti salotti che vengono violentemente distrutti. Le sue opere trasmettono efficacemente la minaccia politica sulle vite quotidiane della gente.
Nel frattempo, il Padiglione tedesco propone un intero appartamento abbandonato, sommerso da una polvere bianca che allude alle possibili catastrofi ambientali; mentre nel Paglione messicano Erick Meyenberg mostra gli oggetti domestici come un ricordo nostalgico di una casa impossibile da raggiungere. Tutte queste ricerche ci fanno percepire come il diritto alla casa stia sfumando ovunque. Da bene di prima necessità innegabile, sta diventando l’obiettivo principale della vita di tante persone.
Anna Jermolaewa, “The penultimate”, 2017, Padiglione Austria. L’artista è stata una rifugiata politica, fuggita dalla Russia Sovietica. Con questi vasi di fiori ci ricorda ciò che i regimi antidemocratici temono di più: le rivolte popolari.
Analisi finale
La Biennale di Venezia 2024 ha fatto emergere forti preoccupazioni politiche e sociali, che incombono minacciando la tranquillità di tutti. Il mondo appare sempre più militarizzato dagli eserciti e colonizzato dalle multinazionali, lasciando uno spazio piccolo e soffocante alle libertà personali. Uno spazio che si è ridotto a quello di un appartamento, che spesso diventa il nostro rifugio poiché è meglio non uscire di casa: non usciamo perché ormai fa troppo caldo, perché c’è la pandemia, perché il quartiere è pericoloso e non si sa mai cosa può succedere. La casa è un rifugio che diventa una gabbia, da cui facciamo sempre più fatica a uscire.
D’altro canto, nelle nostre abitazioni ci stiamo volentieri: lì abbiamo tutto quello che ci serve per trascorrere piacevolmente il nostro tempo. Questo è il luogo degli affetti, delle tradizioni e della sicurezza. Sono proprio questi concetti che sembrano sotto attacco, minacciati dal mondo esterno violento. Le crisi economiche, le guerre e la povertà fanno sì che avere un tetto sopra alla testa anche domani, non sia affatto scontato.
Mentre la nostra tranquillità quotidiana è minacciata da una politica sempre più aggressiva e ipernazionalista, dentro di noi matura la voglia di distruggere ogni confine. Bisogna abbattere ogni limite fisico e psicologico. Alla Biennale di Venezia 2024 la parola più usata è stata “queer”. Questo termine è inteso come un’identità sessualmente, etnicamente o socialmente diversa rispetto alle definizioni di normalità dalla cultura egemone.
Questa coincidenza indica la voglia di riconoscersi gli uni con gli altri, non tanto per i dati scritti sui nostri documenti (nazionali, di genere e di stato civile), ma come esseri umani. Tornare a ritrovarci in un abbraccio fraterno, come esseri liberi, pacifici e privi di giudizio. Non a caso, l’opera che ha vinto il Leone d’oro è stata kith and kin di Archie Moore: l’artista ha realizzato un albero genealogico lungo oltre 65.000 anni, comprendendo gli antenati di tutti gli esseri umani. Un’operazione che ci ricorda che, in fondo, siamo tutti parenti.
Archie Moore, “Kith and kin”, Padiglione Australia. Sulle pareti ha scritto con il gesso i nomi dei suoi discendenti, arrivando a 65.000 anni fa, fino a comprendere gli antenati comuni a tutti gli esseri umani. Al centro della stanza ci sono pile di rapporti di medici legali effettuati per i detenuti indigeni morti durante la detenzione da parte dello Stato australiano.
Robert Zhao Renhui, “Seeing Forest“, Padiglione Singapore.
Eimear Walshe, “Romantic Ireland”, Padiglione Irlanda. Videoinstallazione che parla dell’esproprio delle terre avvenuto in Irlanda a fine Ottocento e dell’attuale crisi abitativa nel Paese.
Aleksandar Denić, “Exposition coloniale”, Padiglione Serbia. L’Europa è ridotta a una colonia delle multinazionali.
Se vuoi vedere le foto di alcune delle opere citate nell’articolo e scoprirne di nuove, vai a “Tutto il meglio e il peggio della Biennale 2024 ” .
Se invece vuoi vedere le analisi della Biennale 2022, vai a “La Biennale dei corpi sospesi ”.
[1] “Foreigners, please don’t leave us alone with the danes!”, cartelli esposti nel padiglione centrale dei giardini da Superflex, Biennale 2024.
[2] Cfr. Hicham Khalidi, intervista di Laura Cocciolillo su Artribune, 20/03/2024, https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2024/03/biennale-arte-venezia-2024-intervista-curatore-padiglione-olanda/#:~:text=Il%20collettivo%20CATPC%20e%20Renzo,Biennale%20Arte%20di%20Venezia%202024
[3] Cit. Ced’art Tamasala a nome del collettivo CATPC. Pannello espositivo all’ingresso del Padiglione Olanda.
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.