Teresa Margolles è un artista messicana che mette in scena le realtà più cruente che accadono nel suo Paese. Con efferatezza e determinazione, utilizza le sue capacità evocative per denunciare una situazione terrificante.
Teresa Margolles, “Planca”, 2014. Dieci piastre riscaldate trasformano in vapore l’acqua estratta da uno straccio utilizzato per pulire il luogo in cui giaceva il corpo di una persona assassinata, sul confine settentrionale del Messico. Foto di Museion.
C’è un luogo nel mondo dove l’arte si esprime con il sangue. Non c’è uno mezzo più adeguato per descrivere quello che succede nelle città messicane di confine come Ciudad Juárez e Culiacán, dove la violenza è pane quotidiano.
In questo inferno contemporaneo, Teresa Margolles, artista, medico e attivista, ha deciso di raccontare al mondo le brutalità che accadono attraverso le sue opere. Il suo osservatorio non è un atelier, ma un obitorio. Qui Teresa Margolles ha lavorato per un decennio come medico forense, confrontandosi ogni giorno con i corpi martoriati di un paese che sembra aver perso ogni controllo.
È da lì che comprende cosa succede per strada: il modo in cui la gente muore è lo specchio dei problemi locali.
L’artista ha vissuto nelle città più violente, Culiacán e Ciudad Juárez, ma non ha mai tollerato le brutalità perpetrate dai narcotrafficanti e la corruzione delle forze dell’ordine della Repubblica Messicana.
Per questo, in gioventù, oltre agli studi artistici e antropologici, ha frequentato i corsi universitari per diventare medico forense e ha lavorato per un decennio con il SEMEFO (Servicio Médico Forense). Si è ritrovata in obitorio a osservare l’ossessiva pulizia di pavimenti e strumenti, immaginando quella coltre di acqua e sangue evaporare e ricaderci addosso come pioggia.
Da queste immagini nascono opere potenti come Vaporización del 2011: una stanza piena di nebbia così fitta da farci perdere ogni riferimento. Ma quella nebbia non è un normale fenomeno climatico: è la vaporizzazione dell’acqua con cui sono stati lavati i cadaveri non identificati prima dell’autopsia.
Proprio come questa, tutte le opere di Teresa Margolles hanno un grande impatto emotivo e il fine di denunciare la violenza che il suo popolo è costretto a subire. L’esperienza di vagare tra una nebbia mortifera, in solitudine, senza poter avvistare alcun punto di riferimento è la metafora di cosa significhi vivere a Ciudad Juárez.
Teresa Margolles, “Los Otros” (Gli altri), 2018. Panno usato per asciugare il sangue di una persona assassinata per strada. Foto di Rosa Menkman.
Nel corso di un’intervista per La Stampa[1], l’artista ha raccontato che, dal 2000, ha visto gli obitori riempirsi sempre di più di corpi assassinati e torturati. Si tratta di cadaveri smembrati, dispersi in giro per la città, appesi sotto i ponti, legati ai pali della luce: una semina di terrore nei confronti dei cittadini, a cui si aggiungono rapimenti a scopo di estorsione e il fenomeno dei desaparecidos, persone che scompaiono improvvisamente nel nulla.
Il fatto che più la preoccupa è che la maggior parte di questi crimini rimane impunita, lasciando le famiglie nel dolore e la popolazione nel terrore. I dati confermano le sue paure: secondo México Evalúa, un centro di analisi indipendente[2], soltanto il 5,4% dei crimini commessi in Messico viene risolto. Tutto ciò lascia presagire un legame di complicità tra criminalità organizzata e governo, che sembra tollerare i reati più atroci garantendone l’impunità.
Davanti a questo scenario tragico, il lavoro di Teresa Margolles è un urlo disperato in cerca d’aiuto, che denuncia la situazione delle città messicane di frontiera in ogni museo, galleria o fondazione che ospiti le sue opere. Il suo intento è coinvolgere emotivamente, rendendo lo spettatore un testimone oculare. Per farlo, spesso preleva frammenti, materiali o interi scenari legati ai crimini.
Ne è un esempio Muro Ciudad Juárez (2010): il muro di una scuola della città, crivellato dai proiettili e sormontato da filo spinato, teatro di una sparatoria del crimine organizzato che causò quattro vittime. In mostra, quel muro diventa un memoriale per le vittime della narcoviolenza, un luogo in cui il trauma continua a risuonare.
In presenza delle opere di Margolles, il museo si trasforma in una scena del crimine: lenzuola insanguinate, proiettili, parabrezza frantumati. È ciò che rimane di persone senza nome, provenienti dal Guatemala, dall’Honduras, da El Salvador, che fuggono dai problemi locali senza documenti. Alle volte sono invece dei cittadini messicani che cercano di varcare il confine con gli Stati Uniti, ma trovano la morte lungo il tragitto.
Volontà dell’artista è rendere visibili queste vittime senza volto, richiamando l’attenzione di istituzioni, organizzazioni umanitarie e governi esteri.
Le vite che non contano
Teresa Margolles, “La Búsqueda” (La ricerca), 2014. Pannelli prelevati da Ciudad Juárez. Foto di Chiara Righi.
Dal suo obitorio, Teresa Margolles ha individuato anche un altro orrore sistemico: il femminicidio. Troppe donne seviziate, torturate, violentate. Sono il risultato di un paese maschilista, macista e violento. In Messico, se la vittima è una donna, difficilmente viene cercata giustizia. Spesso non si denuncia nemmeno la scomparsa. Sono persone trattate alla stregua di oggetti, i cui corpi vengono spesso rinvenuti nei cassonetti della spazzatura.
Secondo il Mexican National Citizens Observatory on Femicide, il Messico è tra i paesi con il più alto numero di femminicidi, rapimenti e violenze di genere[3]. Uno degli slogan più comuni delle manifestazioni femminili è la richiesta più semplice e disarmante: “Vogliamo restare vive.”
Alle donne, Margolles dedica da sempre un’attenzione particolare. Espone spesso lenzuoli intrisi del loro sangue o oggetti simbolici che ne preservano il ricordo. Come Lote Bravo (2005), una serie di mattoni realizzati con sabbia raccolta nei luoghi in cui sono stati trovati i corpi di donne stuprate e uccise.
Alla Biennale del 2019, l’artista installò l’opera La Búsqueda, composta da pannelli di vetro originari, prelevati dalla stazione dei treni di Ciudad Juárez, ricoperti da volantini con le foto delle ragazze scomparse. Si tratta di studentesse, dipendenti di fabbriche e madri di famiglia di cui si sono perse le tracce. Questi pannelli sono stati esposti in una sala buia, dove rimbombavano i suoni del treno che attraversa Ciudad Juárez, trasformati in una bassa frequenza ansiogena. Questi suoni facevano tremare i pannelli, creando un ambiente spaventoso e spettrale.
L’artista ha spiegato che il disprezzo per le donne è tanto che spesso le fotocopie con i volti delle disperse vengono imbrattate dai ragazzini, che disegnano loro baffi o le scarabocchiano. Nemmeno il governo vuole quei manifesti perché ritiene che sporchino la città[4], d’altro canto ce ne sono così tanti che la gente non ci fa nemmeno più caso.
Teresa Margolles, “Mil Veces un Instante”, 2024. L’opera è composta da 726 calchi di volti di persone trans o non binarie provenienti dal regno unito e dal Messico. Foto di Roger Marks.
Ma in Messico non c’è mai fine al peggio. Secondo Margolles, la categoria più umiliata è quella delle donne transessuali, dimenticate al punto che nessuno stamperebbe nemmeno un volantino per denunciarne la scomparsa. Senz’alcuna alternativa alla prostituzione, vivono ai margini, senza alcun valore riconosciuto.
Come Karla, amica e collaboratrice dell’artista, trovata morta nel 2016 in una casa abbandonata, colpita alla testa con un blocco di cemento. Probabilmente l’assassino gira liberamente per Ciudad Juárez, perché la polizia non ha mai indagato su chi fosse il colpevole: la transessualità di Karla rende la sua una morte che non conta.
Teresa Margolles, invece, non ha mai smesso di cercare giustizia per lei. Le ha dedicato Il Testimone (2017), un’installazione composta da fotografie di Karla e La Gata (entrambe prostitute transessuali uccise), accompagnate dalle loro voci registrate: raccontano sogni spezzati, esperienze di emarginazione, rabbia e dolore. Le parole bruciano nel buio della sala, mentre i loro occhi fotografici ci scrutano, generando un profondo senso di ingiustizia.
Nelle sue mostre, l’artista riporta anche le parole che trova scritte o incise sui corpi delle vittime. Alcune frasi sono state lasciate dai carnefici, altre dai cittadini disperati. Ad esempio, “Vedere, ascoltare e tacere[5]”, oppure “Ora basta figli di puttana!”, frase incisa sulle gambe di una ragazza assassinata, che è diventata titolo di una mostra.
In una città invasa da fiumi di cadaveri, i corpi diventano sia manifesti delle bande criminali per sfidarsi, sia materiale di sfogo dei cittadini. Soprattutto quelli delle donne e delle persone trans, destinati in gran parte a finire nelle fosse comuni, senza nome né volto.
La promessa disattesa
Teresa Margolles, “La promesa” (La promessa), 2010. Una casa abbandonata sbriciolata e rimodellata in museo. Foto di Veemente.
Le opere di Teresa Margolles non raccontano solo la morte, ma anche i sogni infranti. Parlano soprattutto di assenza, del vuoto che rimane. Tutto ciò che la città poteva essere e non è stata.
Ciudad Juárez è una zona di frontiera segnata dal passaggio continuo di migranti. In tanti arrivano con la speranza di migliorare la propria vita, ma le aspettative vengono disattese. Una delle opere più simboliche e impegnative in cui si è imbattuta l’artista è La promesa (2010): Teresa Margolles ha distrutto una casa abbandonata in 11 giorni, per poi compattarne le briciole e portarla in museo, rimodellandola in un memoriale. Questo perché a Ciudad Juárez ci sono circa 120.000 case abbandonate, tante da poter formare un enorme paese fantasma.
Infatti, una percentuale importante della popolazione è costituita da migranti che approdano in questo territorio alla ricerca di lavoro. Purtroppo ciò che trovano è ben lontano dalle loro aspettative: la violenza criminale, la crisi economica e la mancanza di protezione da parte delle autorità, sono fattori che li spingono ad abbandonare nuovamente la città.
Così rimangono solo le loro case vuote, ruderi solitari, simbolo di una speranza tradita.
L’artista ha trovato particolarmente faticose le prime fasi di distruzione della casa, poiché le sembrava di violare un luogo intimo di una famiglia, un luogo che conteneva la promessa di una vita migliore. Il memoriale costruito in museo vuole rappresentare i frammenti di queste speranze disattese, aiutandoci a immaginare tutte le amicizie, le relazioni, gli amori e i progetti che potevano nascere e invece sono rimasti sospesi nel deserto di una distesa di case vuote.
Teresa Margolles invita i visitatori a demolire il memoriale a mani nude, in modo da ricoprire tutto il pavimento di quella memoria, assaporare l’odore di quei sogni andati in fumo, evocare tutto il dolore di una promessa tradita.
L’artista desidera che anche noi ci sporchiamo le mani, toccando la sofferenza che opprime la sua terra. In questo modo l’arte può essere uno strumento di denuncia, perché ci obbliga a metterci nei panni degli altri.
D’altronde, l’urlo di Teresa Margolles non può rimanere inascoltato o relegato tra le quattro mura di una mostra: bisogna davvero porre fine a questo fiume di sangue.
Teresa Margolles, “Muro Baleado” 2009. Muro con spari prelevato a Culiacán. Foto di Museion.
[1] Fabio Bozzato, Teresa Margolles: “Trasformo in arte gli orrori di Ciudad Juárez”, 5 Aprile 2018, https://www.lastampa.it/cultura
[2] [https://www.mexicoevalua.org/]
[3] Cit. Antonio Barbangelo, “Il fenomeno delle sparizioni forzate in Messico – Tra di loro anche molti difensori dei diritti umani e giornalisti”, https://it.gariwo.net/, 30 agosto 2023
[4] Cit. Teresa Margolles durante l’intervista con Manuela De Leonardis per Il Manifesto, il 23 aprile 2016, https://ilmanifesto.it/unumanita-braccata-dalla-violenza.
[1] Frase che appare nell’installazione “La periferia dell’agonia” del 2022, di Teresa Margolles, rinvenuta sul cadavere di una ragazza assassinata.
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.