DECODE 

DECODIFICATI

DECODIFICATI

INTERVISTA A KARIN ANDERSEN

Ibridi contro l'antropocentrismo

Chiara Righi4 Maggio 2025

Le opere di Karin Andersen sono magiche. Trasformano i luoghi quotidiani in anomali, garantendoci l’incontro con alieni, mutanti e specie viventi non identificate.

La sua arte postumana si pone in contrasto con una visione antropocentrica del mondo e si apre a tante riflessioni filosofiche. Per approfondire alcuni aspetti, sono andata a trovare l’artista nel suo studio, in compagnia di Ilaria Iannolo e con il supporto di Catalina T. Salvi. Immerse tra statue, dipinti e fotomontaggi, siamo entrate nel mondo degli ibridi.

Karin

 

Dettaglio dello studio di Karin Andersen. Foto di Ilaria Iannolo. 

 

 

 

 

Sei considerata un’importante esponente del Post Human perché il tuo lavoro mette in discussione una visione antropocentrica del mondo. Infatti, nelle tue opere la figura umana viene messa in disparte, se non proprio ignorata, a favore di altre creature.

Da dove nasce questa esigenza di svuotare i luoghi tipicamente umani dalle persone e riempirli di altre creature?

 

Non mi è mai piaciuto occuparmi esclusivamente della figura umana, in maniera del tutto istintiva l’ho sempre vissuta come qualcosa di un po’ asfissiante.

Fin da bambina disegnavo esseri contaminati, come donne-gatto o altre figure dall’aspetto animale. Era una predisposizione naturale che si è poi intrecciata con le influenze dei tardi anni ’80, un periodo in cui ho conosciuto molti artisti che lavoravano su temi affini. Penso, ad esempio, a Luigi Ontani e Luigi Mastrangelo, che proponevano figure ibride. Ovviamente la mostra Post Human curata da Jeffrey Deitch e i primi lavori di Matthew Barney mi hanno folgorato perché esploravano una direzione vicina a quella su cui stavo lavorando io.

La mia ricerca si è poi affinata ulteriormente grazie all’incontro con il filosofo e zooantropologo Roberto Marchesini. Ho sviluppato una maggiore consapevolezza del significato delle figure animaloidi, teriomorfe e zoomorfe che dipingevo e ho iniziato a inserirle in scenari umani, quotidiani.

Non so se sia corretto dire che ho svuotato gli ambienti dagli esseri umani, perché nei miei primi lavori erano ancora presenti e reagivano all’invasione, per nulla ostile, di questi mutanti. Mi interessava capire quale effetto suscitasse nelle persone l’idea di vedere un ibrido in uno scenario quotidiano.

karin_andersen_tilidin

Karin Andersen, “Tilidin”, dalla serie “Studi di Fisiognomica Amorale”. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo. 

 

I tuoi ibridi uomo-animale rappresentano una sorta di richiamo al nostro istinto più animale oppure sono un invito a ricollegarci con la natura?

 

Un po’ tutto questo. Mi interessa riflettere sull’animalità dell’uomo perché intorno a questo tema esistono molti stereotipi.

Roberto Marchesini ha elaborato teorie che mettono in evidenza le incongruenze pericolose della visione del mondo antropocentrica. Come ha spesso sottolineato, tante volte parliamo del nostro passato animale o del recuperare la nostra parte animale, ma scientificamente questa idea non regge: non è che un tempo eravamo più animali e ora lo siamo meno. La realtà è che stiamo evolvendo parallelamente alle altre specie e la nostra animalità è sempre stata parte di noi, non è qualcosa di nascosto o da riscoprire. Il fatto che la rinneghiamo molto spesso porta a dei disastri. Non riconoscere la nostra natura significa non essere consapevoli delle nostre pulsioni, come l’aggressività e la territorialità. Se invece ne prendessimo coscienza sarebbe più facile gestirle.

Viviamo ancora in una cultura segnata dall’umanesimo e dal pensiero antropocentrico, che ci spinge a percepire la natura come uno sfondo, mentre noi ci consideriamo i protagonisti più evoluti. Comprendere la continuità con gli altri animali non significa sminuire l’essere umano o le sue capacità, ma semplicemente collocarlo in modo più corretto nella nostra idea della biosfera. Questo è il messaggio più profondo che vorrei far emergere: c’è una continuità tra noi e loro.

 

 

 

E secondo te questa negazione dei nostri istinti ci porta a sopravalutare la nostra capacità di autocontrollo?

 

Esatto, credo proprio che sia così. Pensare che noi, a differenza degli altri animali, abbiamo il controllo totale sulla sfera degli istinti e delle pulsioni, genera dinamiche pericolose.

Heinakuhi - Andersen

Karin Andersen “Heinakuhi”, 2008. Courtesy Guidi & Schoen Arte Contemporanea, Genova.

 

 

 

Le tue opere si aprono spesso a una riflessione sulle problematiche ambientali e sul rispetto del mondo animale. Penso ad esempio all’omaggio alla cagnolina Laika morta in orbita nel primo esperimento di volo extraterrestre con un passeggero, o ai più piccoli insetti come le api, piuttosto che gli animali usati come cavie da laboratorio, come conigli e topi. È solo una coincidenza estetica o sono tematiche che ti stanno veramente a cuore?

 

Mi appartengono, ovviamente. Nel mio lavoro cerco di indagare gli aspetti filosofici che stanno alla base della nostra idea dell’animalità, di cui l’animalismo e l’antispecismo sono un’espressione nella sfera reale e, volendo, politica. Pur non essendo un’esperta di storia e attualità dei diritti animali mi piacerebbe contribuire di più anche su questo piano e ti ringrazio per la domanda in merito.

 

 


Secondo te gli artisti hanno una responsabilità verso la sensibilizzazione della comunità? Per quanto riguarda queste problematiche o comunque le problematiche politiche, sociali, ambientali?

 

Dovrebbe essere così, altrimenti si cade nell’art pour l’art, che è un concetto che può avere comunque una sua bellezza se pensiamo ad opere che per la loro semplice potenza estetica hanno un effetto benefico o terapeutico. Però mi piace pensare che l’artista abbia anche una funzione sociale, una minima responsabilità nel contribuire alle trasformazioni.

Gli artisti, in genere, hanno antenne molto sensibili e riescono a cogliere in anticipo i cambiamenti, a volte in modo inconsapevole. Purtroppo nell’arte contemporanea, esprimersi in modo troppo esplicito può far sembrare ingenui o poco differenziati nella ricerca, ma non per questo bisogna rinunciare a questa dimensione.

karin_andersen_lichtena

Karin Andersen, “Lichtena”, dalla serie “Studi di Fisiognomica Amorale”. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo.  

 

 

 

Invece nel tuo ciclo di Studi di Fisiognomica Amorale, assomigliare a un animale cosa significa?


In questo caso c’è un riferimento diretto alla fisiognomica, una disciplina pseudoscientifica che nel corso della storia ha spinto molti studiosi a interrogarsi sul legame tra aspetto fisico e caratteristiche psicologiche. L’idea di base era che la somiglianza di una persona a un animale potesse riflettersi nel suo carattere. Uno dei capostipiti di questa teoria è Cesare Lombroso, secondo cui chi possiede tratti “primitivi” o animaleschi nel volto è più incline a commettere crimini. È un’idea estremamente pericolosa perché porta a discriminare persone innocenti e a penalizzare intere etnie in base ai loro tratti somatici.

Con questo progetto ho voluto fare un commento alla teoria di Lombroso presentando individui che in qualche modo ricordano animali, ma senza alcuna connotazione negativa o positiva. Sono semplicemente persone comuni, “amorali” nel senso che non voglio attribuire loro alcun giudizio di valore. Se ci pensiamo, nell’iconografia tradizionale l’ibrido umano-animale ha sempre avuto un significato molto forte: è stato associato a demoni, angeli, idoli, supereroi o mostri. Mi interessava invece ricreare l’immaginario dell’ibrido in un contesto completamente neutro.

Studio di Karin Andersen

Dettaglio dello studio di Karin Andersen. Foto di Ilaria Iannolo. 

 

 

 

Insieme a Roberto Marchesini hai indagato il concetto del teriomorfismo (da lui usato per definire un’idea di animalità diffusa, non riconducibile a singole specie), che tradizionalmente definisce la tendenza nell’individuare divinità di forma animale. Ci sono state alcune figure religiose che hai incontrato nel tuo percorso che ti hanno affascinato particolarmente?

 

Una delle figure che più mi ha affascinato è quella del diavolo tra il tardo Medioevo e il primo Rinascimento. Gli artisti di quell’epoca hanno spesso usato la mescolanza di diverse specie animali, o di uomo e animale, per rappresentare qualcosa di soprannaturale, inquietante e maligno. Un esempio classico è la raffigurazione del diavolo nelle iconografie di San Giorgio o San Michele che combattono il drago: mi piacciono perché mostrano come gli artisti dell’epoca dessero forma alle credenze del momento, ma allo stesso tempo si divertissero a esplorare il mondo del mostruoso.

Trovo affascinanti anche gli ibridi straordinari creati poco più tardi dagli artisti attivi nell’ambito della riforma protestante, in particolare quelli di Lucas Cranach il Vecchio. Le sue litografie aiutavano Lutero a diffondere la critica del sistema dogmatico e gerarchico della Chiesa cattolica, spesso attraverso immagini satiriche. Un esempio è la figura dell’asino Papa, il Papstesel, un ibrido di varie specie animali con dettagli effeminati, utilizzato per ridicolizzare la figura del Pontefice.

 

Un altro ambito che mi affascina molto è l’iconografia del pantheon delle divinità ibride buddiste e induiste. Qui la prospettiva è completamente diversa dalla nostra: è tendenzialmente assente qualsiasi componente mostruosa creata per incutere timore, anzi, queste figure sono venerate come idoli, riflettendo una differenza profonda tra la cultura occidentale e quella orientale. La concezione molto diversa dell’elemento animale, sottolinea un’idea di continuità del vivente.

 

 


Credi che ci siano aspetti importanti che le religioni antiche possano insegnarci riguardo al legame con la natura?

 

Sì, direi che per questo bisogna guardare a Oriente e approfondire il mondo degli ibridi creati in quelle culture, in cui il legame con la natura è forse più percepibile. In India, ad esempio, la credenza nella reincarnazione secondo cui si può rinascere sia come animale sia come essere umano, porta a una concezione molto diversa dell’elemento animale. Anche in questa visione, però, persiste l’idea dell’essere umano come forma evolutiva finale, come perfezione, quindi da questo punto di vista siamo sempre in un paradigma antropocentrato.

In India trovo particolarmente interessante il culto della mucca. Ho avuto modo di osservarlo durante un viaggio: le mucche camminano liberamente nel traffico più caotico e nessuno le sfiora. Mi hanno spiegato che questo rispetto deriva dal culto della mucca madre, a cui si è riconoscenti perché, tradizionalmente, è stato proprio l’eccesso di latte delle mucche a garantire la sopravvivenza del popolo umano.

karin_andersen_cappuccettorosso

Karin Andersen, “Capucetto Rosso”, 2021. Courtesy l’artista.

 

 

La tua ricerca sulle fiabe invece, ti ha portato a mettere in discussione la morale di alcune fiabe tradizionali, ad esempio Capucetto Rosso, giusto?

 

Sì, soprattutto! Tradizionalmente, attraverso la figura del lupo, la trama sembra voler dire: “Non fidatevi dello straniero, dell’alieno, dell’alterità animale”. In passato, ovviamente, era naturale mettere in guardia i bambini dal pericolo del bosco e dei lupi, ma oggi, in un’epoca in cui il selvaggio non è più necessariamente spaventoso, quell’incontro può diventare qualcosa di radicalmente diverso.

Ho immaginato quindi che i bambini di oggi possano essere attratti dalla figura del lupo e dall’idea di trasformarsi in lui. Ho cercato di rappresentare come Cappuccetto Rosso cambi dopo l’incontro con l’alterità lupoide. C’è una contaminazione, ma in senso positivo: un intreccio di idee. Come dice anche Roberto Marchesini, in fondo siamo tutti ibridi perché nessuno si costruisce da solo. Siamo il frutto di relazioni e, anche inconsapevolmente, assorbiamo sempre qualcosa dagli altri. Allo stesso modo l’incontro con il lupo può significare immedesimarsi nell’altro, ampliare il proprio orizzonte.

Per uscire ancora di più dagli stereotipi, ho scelto di cambiare un altro elemento chiave: il protagonista non è una bambina ma un bambino, offrendo così una prospettiva indipendente dalle questioni di genere.

karin_andersen_veclam

Karin Andersen, “Veclam”, dalla serie “Studi di Fisiognomica Amorale”. Courtesy Traffic Gallery, Bergamo.  

 

 


Mi incuriosisce il tuo approfondimento sulle interazioni tra microcosmo e macrocosmo e quindi la costruzione di nuovi ecosistemi. Quando devi immaginare un nuovo ecosistema, cosa prendi in considerazione?

 

La maggior parte delle volte utilizzo ciò che ho a disposizione per visualizzare le mie idee. Ad esempio, nei miei primi lavori digitali con gli insettoidi ho usato come sfondo la metropolitana di Napoli. I miei amici napoletani mi hanno portato alla nuova Stazione Salvator Rosa, appena augurata, progettata da Alessandro Mendini: era bellissima e semideserta, con pochissimi passaggi di treni e pochissima gente. Abbiamo potuto scattare foto indisturbati e quell’ambiente vuoto è diventato l’input per creare il mio ecosistema in una logica un po’ situazionista.

Altre volte, invece, parto da un’idea più definita e la realizzo in studio con delle miniature. Creo dei modelli, poi inserisco digitalmente le figure, cercando di trovare un compromesso tra ciò che immagino e ciò che posso concretamente realizzare. Mi piace lavorare nel mio piccolo senza dover mobilitare apparati costosi. Non è solo una questione di arrangiarsi, è proprio un modo di pensare. Forse l’ho ereditato da mio padre che era un grande bricoleur: costruiva di tutto utilizzando ciò che trovava nel suo laboratorio nella cantina di casa nostra.

Karin Andersen

Karin Andersen, “Prototipo”, 2021. Foto scattata alla mostra “New Citizens” alla Rocca di Dozza, 2025. Foto di Chiara Righi. 

 

 

 

Sei molto legata al discorso ecologico, biologico, però sei un’artista che si contraddistingue da sempre per l’uso delle nuove tecnologie. Come vedi tu la tecnologia? Ti sembra qualcosa che può essere utile per l’evoluzione umana oppure la vivi più come un rischio per quanto riguarda la distruzione ambientale?

 

Non so rispondere con certezza, se lo sapessi ne sarei felice. Dipende anche dagli approcci: il Transumanesimo tende a vedere la tecnologia come un mezzo per potenziare l’essere umano, fino a trasformarlo in qualcos’altro, come il superuomo o figure simili. Il Postumanesimo la considera invece un’ulteriore alterità con cui necessariamente ci ibridiamo, aprendo prospettive inedite.

Se la tecnologia viene vissuta solo come uno strumento sempre più sofisticato per modificare noi stessi e arrivare a una presunta perfezione, può essere un grande rischio. Se invece la consideriamo un’opportunità per risolvere problemi e cooperare meglio con il resto della biosfera, allora il discorso cambia.

Resta comunque un enorme dilemma perché la vera questione è sempre la capacità di gestirla in modo responsabile, soprattutto considerando la già menzionata aggressività insita nell’essere umano. Un potere così grande in mano a certe persone può essere incredibilmente pericoloso.

 

 

 

Anche nelle relazioni sociali la tecnologia ha modificato tantissimo il modo di interagire…

 

Sì, ne sono al contempo spaventata e affascinata. Da una parte vedo (da vicino, grazie a mio figlio e i suoi amici) come i giovanissimi stiano inevitabilmente trasferendo una buona parte delle loro interazioni nella sfera virtuale, a scapito di esperienze reali e materiali, con le conseguenti dinamiche di estraniamento e passività, e lo vedo come un grosso rischio. Al contempo io stessa sono immersa nei meccanismi comunicativi dei social network, e non mi dispiace affatto quella sensazione di essere trasversalmente connessa a persone e flussi di informazioni, vere o fake che siano, ma devo dire che nel mio entourage sono per lo più verificabili, interessanti e spesso introvabili sui media mainstream (consiglio a questo proposito le approfondite riflessioni sulla Tecnomagia del sociologo Vincenzo Susca, Mimesis, 2022).

Non ho cose intelligenti e univoche da dire a riguardo del dilemma dei rischi e benefici della tecnologia, l’unica cosa per me sicura è che prima di usare la tecnologia per qualsiasi cosa (dall’uso come strumento lavorativo fino alle interazioni sociali) l’importante sia sviluppare una consapevolezza. Nel mio piccolo cerco di usarla per ciò che può offrire di specifico. Ad esempio, utilizzo la tavoletta grafica non per emulare tecniche analogiche, ma perché mi permette di ottenere un certo tipo di segno, un’oscillazione particolare, quasi fosse un sismografo che reagisce ai minimi movimenti della mano.

 

 


Tra l’altro io adoro i tuoi disegni digitali, quando scaravolti le foto e vai a creare dei micromondi!

 

Ti ringrazio! Quei disegni costituiscono la mia piccola realtà aumentata…

 

 

 

Dettaglio dello studio di Karin Andersen. Foto di Ilaria Iannolo. 

 

 

 

Ringraziamo Karin Andersen per la bellissima chiacchierata, la gentilezza e la simpatia!

Vi invitiamo a seguirla sul suo sito web: https://karinandersen.net/

e sui suoi social:  Instagram e Facebook

 

 

 

 

Se vuoi conoscere meglio la corrente artistica del Post Human, vai all’articolo Oltre l’umano: panoramica dell’arte Post Human.

Se invece ti interessa approfondire la visione del Transumanesimo accennata durante l’intervista, vai all’articolo Transumanesimo, la scienza contro i limiti umani.


due note sull'autore di questo articolo / intanto commenta e seguici sui social ...

Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.
  • OSSERVATORIO DECODE

    Recenti

    Carlo Carrà

    Collettivo Wu Ming

    Anno di pubblicazione / 1920

    Autore /

    Archiviato in (subcat)