Nicola Samorì è uno degli artisti italiani che preferisco. Il più dark di tutti.
Utilizza lo stesso linguaggio di Caravaggio ma ci racconta cose ben diverse. Le sue opere generano un botta e risposta interessantissimo con gli artisti Seicenteschi, un dialogo tetro e appassionante.
A pochi anni dal suo diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Samorì ci stava per riuscire. Era andato a Porto Ercole, le date erano state fissate e i quadri erano pronti. Finalmente avrebbe dialogato con il mito, affrontato la leggenda, sarebbe tornato lì dove tutto era cominciato: avrebbe esposto di fianco a Caravaggio.
Pochi giorni prima dell’allestimento la sovrintendenza, concretizzata nella severa Rossella Vodret, lo esclude dalla mostra. Qualcuno aveva improvvisamente cambiato idea, rendendosi conto dello “scempio” che stava per accadere. I quadri che Nicola Samorì aveva preparato per l’occasione erano due copie del Merisi, il San Giovanni disteso e La Maddalena in estasi, con una cruciale differenza rispetto agli originali: il corpo della Maddalena e il volto di San Giovanni erano deturpati, vanificati in una cortina di fumo. Qualcuno deve aver pensato che le sue opere fossero un oltraggio nei confronti della grande arte classica. In effetti, ogni lavoro di Nicola sembra comportare il sacrificio di un’opera antica.
“Simonis (S.a.)”, 2008, di Nicola Samorì: è la copia rivisitata dell’opera “Sant’Andrea” del 1637 dell’artista caravaggesco Josè de Ribera.
Nicola Samorì porta avanti un discorso sul crollo, sulla distruzione e sul degrado. Il suo intento però non è quello di oltraggiare le opere antiche ma di dialogare con loro. La sua vicinanza al linguaggio degli artisti caravaggeschi è molto precisa: le sue opere s’illuminano della stessa luce folgorante e dello stesso buio profondo, ponendo però degli accenti diversi che né ribaltano il significato.
Infatti, quando le fortissime luci di Caravaggio squarciavano il buio, lo facevano in segno di speranza, posandosi sulle figure redentrici. In mezzo alle tenebre, poneva l’attenzione su quell’unico punto di speranza capace di salvare anche il peggiore dei peccatori, ossia la fede.
Samorì utilizza quelle stesse luci ma non le convoglia sulle figure salvifiche: illumina le parti meno edificanti del quadro, come le sbrodolature, le smaccature, le macchie di colore che schizzano via. I fari non sono puntati sulla salvezza ma sul deterioramento.
In questo modo Samorì ci comunica il crollo dei valori classici. La fede non è più in grado di salvare l’uomo contemporaneo, così come i valori tradizionali dell’eroismo, della grazia e della perfezione, sono in fase di deperimento. Insieme a loro anche l’autorità dei potenti viene lavata via dalla storia, dato che i loro ritratti pomposi si scrostano, crepano, cadono in rovina.
“Certe mie immagini non sono la celebrazione della rovina: sono rovina[1].” Afferma Nicola durante un’intervista con Damiano Gullì. Infatti, in alcune opere, i problemi della rovina e dell’impermanenza sono penetrati in tutti i processi di lavorazione: i quadri si stanno letteralmente accartocciando su loro stessi e, in futuro, non esisteranno più.
È un incancrimento inesorabile. Una lotta continua tra la figura e la sua disgregazione, c’è sempre un buio profondo che minaccia di risucchiare la materia. Un delicato equilibrio tra esistenza ed oblio, tra la fatica dei soggetti di continuare a sopravvivere e la voracità del vuoto che li fagocita.
Nicola parte dagli artisti del Seicento e per parlare delle paure contemporanee. È un artista tecnicamente virtuoso e riesce nel difficile intento di far convivere la bella pittura degli antichi e la spinta anticlassica delle avanguardie storiche che tendono all’astrazione e all’espressività[2]. Mentre cita Rembrant, José de Ribera, Mattia Moreni e Giuseppe Maria Crespi, è impossibile non intravvedere le modalità operative dei maestri del contemporaneo come Anselm Kiefer, Francis Bacon e Mimmo Rotella. Riesce così nell’intento di mettere in dialogo due mondi, far rivivere la tragedia mitologia raccontandola nel linguaggio odierno, a noi più comprensibile nella sua drammaticità.
“Sleeping drummer”, scultura di Nicola Samorì del 2020 ispirata al mito di Marsia, musicante sileno scorticato da Apollo.
Martiri, tragedie e vanitas: la storia dell’arte è permeata di suggestioni brutali che danno a Samorì il giusto appiglio per parlare di dissoluzione, instabilità e di tutti i turbamenti che attanagliano l’uomo contemporaneo. In particolare, ci sono alcune figure mitologiche che tornano con molta costanza nel suo lavoro, come quella di Marsia, musicante sileno scorticato da Apollo; il soggetto perfetto per una pittura che si scarnifica, si apre e sanguina disperatamente.
Bisogna però ricordare che oltre a interpretare, citare e rimaneggiare il materiale dei grandi maestri, Nicola Samorì è anche un eccezionale sperimentatore. Dipinge su qualunque supporto, rame, legno, pietre dure; così come scolpisce su tutto, unendo materiali diversi, opachi e traslucidi, lisci e grumosi.
Anche questo aspetto fa di Samorì un grande interprete dell’estetica contemporanea, capace di raccontare il nostro terrore di fronte alla decadenza della pelle, all’incombenza della morte pronta a schiacciarci e strapparci via da noi stessi.
La paura per la nostra sorte è tanta da creare un’allucinazione, un’evanescenza, una distorsione visiva. E mentre guardiamo le grandi opere del passato disfarsi non possiamo evitare di pensare a noi stessi, al nostro destino inesorabile e intollerabile. Così difficile da guardare in faccia.
“Secondo natura” di Nicola Samorì, 2020. Opera ispirata alle nature morte Seicentesche.
Dettaglio di “Untitled” di Nicola Samorì, 2014, marmo bianco di Carrara. Foto di ArtAppreciated.
[1] Nicola Samorì, “Pittura lingua viva. Intervista a Nicola Samorì” di Damiano Gullì, 12 aprile 2021, Atribune,
https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2021/04/pittura-intervista-nicola-samori/
[2] Critica alla mostra “Sfregi” d Nicola Samorì, Palazzo Fava di Bologna, 2021
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Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.