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Democrazia Futurista

Chiara Righi20 Aprile 2020

DEMOCRAZIA FUTURISTA

Filippo Tommaso Marinetti

1919
FACCHI, EDITORE – MILANO
18, VIA DURINI

 

 

 

1.
Un movimento artistico crea un Partito Politico.

 

Il nostro Partito Politico Futurista è nato naturalmente dalla grande corrente spirituale del movimento artistico futurista.
Unico nella storia il nostro Partito è stato concepito, voluto e attuato da un gruppo di artisti poeti, pittori, musicisti, ecc.: che, carichi di genio e di coraggio ormai provati, dopo avere svecchiato brutalmente e modernizzato l’arte italiana sono giunti logicamente ad una concezione di politica assolutamente sgombra di retorica, violentemente italiana e violentemente rivoluzionaria,libera, dinamica e armata di metodi assolutamente pratici.
Poichè un passato illustre schiacciava l’Italia e un avvenire infinitamente glorioso ribolliva nel suo seno, appunto in Italia,  sotto il nostro cielo troppo voluttuoso, l’energia futurista doveva nascere, dieci anni fa, organizzarsi, canalizzarsi, trovare in noi i suoi motori, i suoi apparecchi di illuminazione e di propagazione.
L’Italia, più di qualunque altro paese, aveva un bisogno urgente di futurismo, poichè moriva di passatismo. L’ammalato inventò il proprio rimedio. Noi siamo i suoi medici occasionali. Il rimedio vale per gli ammalati di ogni paese.
Il nostro programma immediato era di combattimento accanito contro il passatismo italiano sotto le sue forme più ripugnanti: archeologia, accademismo, senilismo, quietismo, vigliaccheria, pacifismo, pessimismo, nostalgia, sentimentalismo, ossessione erotica, industria del forestiero, ecc. Il nostro movimento ultraviolento, anticlericale, antisozzalista e antitradizionale si fondava sul vigore inesauribile del sangue italiano e lottava contro il culto degli avi che, ben lungi dal cementare la razza, l’anemizza e l’imputridisce.

Il futurismo, nel suo programma totale, era un’atmosfera d’avanguardia; la parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchitiratori intellettuali del mondo; l’amore del nuovo; l’arte appassionata della velocità; la denigrazione sistematica dell’antico, del vecchio, del lento, dell’erudito e del professorale; un nuovo modo di vedere il mondo; una nuova ragione di amare la vita; una entusiastica glorificazione delle scoperte scientifichee del meccanismo moderno; una bandiera di gioventù, di forza, di originalità ad ogni costo; un colletto d’acciaio contro l’abitudine dei torcicolli nostalgici; una mitragliatrice inesauribile puntata contro l’esercito dei morti, dei podagrosi e degli opportunisti, che volevamo esautorare e sottomettere ai giovani audaci e creatori; una cartuccia di dinamite per tutte le rovine venerate.
La parola futurismo conteneva la più vasta formula di rinnovamento; quella che, essendo a un tempo igienica ed eccitante, semplifica i dubbî, distrugge gli scetticismi e raduna gli sforzi in una formidabile esaltazione. Tutti i novatori s’incontrarono sotto la bandiera del futurismo, perchè il futurismo proclamava la necessità di andar sempre avanti, e perchè proponeva la distruzione di tutti i ponti offerti alla vigliaccheria. Il futurismo era l’ottimismo artificiale opposto a tutti i pessimismi cronici, il dinamismo continuo, il divenire perpetuo e la volontà instancabile. Il futurismo non era dunque sottoposto alle leggi della moda nè al logorìo del tempo, non era una chiesuola né una scuola, ma piuttosto un grande movimento solidale di eroismi intellettuali, nel quale l’orgoglio individuale è nulla, mentre la  volontà di rinnova re è tutto.

Il futurismo italiano, profeta della nostra guerra, seminatore e allenatore di coraggio e d’orgoglio italiano, ha aperto undici anni fa il suo primo comizio artistico col grido: W. Asinari di Bernezzo! Abbasso l’Austria!
I futuristi organizzarono Le due prime dimostrazioni contro l’Austria nel Settembre 1914 a Milano in piena neutralità, bruciarono in piazza otto bandiere austriache e furono incarcerati a S. Vittore.

Vollero la guerra, lottarono per la guerra e fecero la guerra.

 

FUTURISTI

 

Morti in prima linea.

 

CANTUCCI (medaglia d’argento).
STOJANOVICH.
SANT’ELIA (medaglia d’argento).
CARLO ERBA.
ATHOS CASARINI.
LUCA LABOZZETTA.
LUIGI PERON-CABUS.
VISONE.
OCCHINEGRO.
ANGELO DELLA SANTA.
ANNUNZIO CERVI (medaglia d’argento).
UGO TOMMEI.

 

Feriti in prima linea.

 

GUIZZI DORO.
NINO ZUCCARELLO.
F. T. MARINETTI.
NINO FORMOSO.
JAMAR 14.
BOLONGARO (medaglia di bronzo).
RACCHELLA (5 ferite – mutilato – medaglia di bronzo).
RAFFAELE MEROLA (mutilato).
BERR (4 ferite – 2 medaglie d’argento).
PIERO BOLZON.
GENNARI(mutilato – 3 medaglie d’argento).
SOFFICI (medaglia di bronzo).
RUSSOLO(mutilato – medaglia d’argento).
VANN’ANTO’.
DESSY.
OLAO GAGGIOLI (4 medaglie).
STEINER (mutilato).
MARIO CARLI.
MARCELLO MANNI.
UGO PIATTI.
OTTONE ROSAI(medaglia d’argento).
ENRICO ROCCA.
CERATI.
ASTARITA (medaglia d’argento).
MORPURGO.
CATAPANO (medaglia di bronzo).
PAOLO RUBIO.
BUSINELLI (medaglia d’argento).
RAFFAELLO FRANCHI.
P. P. CARBONELLI.
URRICO FOA.
BERTO RONCHIS (mutilato – 3 medaglie).
ROMANO IMEGLI (2 medaglie).
RENATO BECCATI (2 medaglie).
RENATO ZAMBONI (mutilato).
GIORGIO FORLAI.
GIOVANNI BRUNETTI.
NINO SCOTTO(4 ferite).
CORRADO GIUSTI.
G. BENASCIUTI.
ARTURO BREVIGLIERI.

 

Morto sotto le armi

 

UMBERTO BOCCIONI.

 

Convinti di avere col genio profetico, il coraggio, il sangue e la tenacia collaborato ampiamente alla formidabile vittoria italiana, i futuristi italiani sentono oggi la necessità di partecipare direttamente alla direzione politica dell’Italia, lanciando in avanti un sogno rinnovatore infinitamente più audace e un programma di libertà infinitamente più rivoluzionario.
Il Corriere della Sera diceva nell’aprile 1917: «Purchè l’Italia non sia, come a volte pare, un organismo sociale sui generis, nè aristocrazia nè democrazia, ma gerontocrazia, una gelosa repubblica senile ove – salvo strabilianti eccezioni – è preclusa la strada a chi non sia tanto stagionato e infiacchito da non dare ombra a nessuno».
Sì: è così. È assolutamente così, ed è contro questa Italia schifosa – sostenuta in realtà dal Corriere stesso – che noi combattiamo da dieci anni.
Il manifesto del Partito Politico Futurista Italiano, pubblicato e lanciato l’11 febbraio 1918, dichiara: «Bisogna portare la nostra guerra alla sua vittoria totale, cioè allo smembramento dell’impero austro-ungarico, e alla sicurezza dei nostri naturali confini di terra e di mare, senza di che non potremmo avere le mani libere per sgombrare, pulire, rinnovare e ingigantire l’Italia».
La nostra profezia, come altre nostre, si è pienamente realizzata. Il nostro ottimismo futurista molte volte deriso, combattuto da quasi tutti, ha avuto pienamente ragione.

Abbiamo le mani libere. Incominciamo dunque senza ritardo a sgombrare, pulire, rinnovare e ingigantire l’Italia, liberandola dal peso del passato e dello straniero.
Il Partito Futurista vuole una Italia libera, forte, non più sottomessa al suo grande Passato, al forestiero troppo amato e ai preti troppo tollerati: una Italia fuori tutela, assolutamente padrona di tutte le sue energie e tesa verso il suo grande avvenire.
Il Partito Politico Futurista sarà nettamente distinto dal movimento artistico futurista. Questo continuerà nella sua opera di svecchiamento e rafforzamento del genio creativo italiano. Il movimento artistico futurista, avanguardia della sensibilità artistica italiana, è necessariamente sempre in anticipo sulla lenta sensibilità del popolo. Rimane perciò una avanguardia spesso incompresa e spesso osteggiata dalla maggioranza che non può intendere le sue scoperte stupefacenti, la brutalità delle sue espressioni polemiche e gli slanci temerari delle sue intuizioni.
Il Partito Politico Futurista invece intuisce i bisogni presenti e interpreta esattamente la coscienza di tutta la razza nel suo igienico slancio rivoluzionario. Potranno aderire al Partito Politico Futurista tutti gli italiani, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, anche se negati a qualsiasi concetto artistico e letterario.
Le ostilità suscitate dal Futurismo artistico non devono turbare i nuovi aderenti al Partito Politico Futurista.
Le opere artistiche del movimento futurista possono apparire ai loro occhi troppo programmatiche e violente, troppo cariche di voluto e di teorico.
Ciò è naturale.
Le faccie di coloro che scavano un tunnel sono contratte dallo sforzo violento e tenace. Le faccie di coloro che entrano in un tunnel sdraiati in un treno di lusso veloce sono calme, allentate, appagate, soddisfatte e senza contrazioni.
Il nostro Partito Politico vuole creare una libera democrazia futurista che disprezzando le utopie pacifiste al latte-e-miele tragga la sua potenza di sviluppo dal valore tipico energetico di
tutto il popolo italiano. Questa italianità provata e glorificata nelle vittorie sanguinose dal più umile fante, deve trasformarsi domani, nel più umile fante (operaio o contadino) in un saldo orgoglio di sentirsi italiano. Tutte le audacie, tutti i progressi e tutte le libertà in questa grande luce che si chiama Italia.
L’Italia unico sovrano.
Tutto, tutto per la libertà il benessere il miglioramento fisico e intellettuale la forza il progresso la grandezza e l’orgoglio italiano del più umile e più piccolo italiano. Essere italiano è oggi un titolo di nobiltà altissimo, un grande diritto, un valore incalcolabile.
Noi Futuristi esigiamo dunque da ogni italiano un nuovo sforzo eroico perchè superando tutte le debolezze della razza calpestando e uccidendo ogni viltà e ogni abitudine del cervello del cuore e dei nervi tronchi brutalmente con tutto il suo passato e appaia finalmente virilissimo, nuovissimo, italianissimo.
Il Partito Politico Futurista si dichiara dunque nettamente antimonarchico, ma non contentandosi del rancido e floscio ideale repubblicano vuole giungere ad un governo tecnico di 30 o 40 giovani direttori competenti senza parlamento, eleggibili da tutto il popolo mediante sindacati.
Il Partito Politico Futurista avendo per obbiettivo la massima libertà, il massimo benessere e la massima potenza di produzione di tutti gli italiani, tutti portati al loro massimo valore, vuole l’abolizione graduale del matrimonio mediante il divorzio facilissimo, il voto alle donne e la loro partecipazione all’attività nazionale. Inoltre abolire l’attuale sistema di Polizie e di Questure
riducendo al minimo l’attuale complicata inefficace difesa del cittadino che deve – anzitutto – difendersi da sè.
Il Partito Politico Futurista vuole inoltre con un anticlericalismo intransigentissimo liberare l’Italia dalle chiese, dai preti, dai frati, dalle monache, dai ceri e dalle campane.
Il Partito Futurista ha come unica religione l’Italia di domani, non ammette mezzi termini, esige senz’altro l’espulsione del Papato.
Il manifesto del Partito Politico Futurista dichiarava nel febbraio 1918:
«Mantenere l’esercito e la marina in efficienza fino allo smembramento dell’Impero austro-ungarico. Poi, diminuire gli effettivi al minimo, preparando invece numerosissimi quadri di ufficiali con rapide istruzioni. Esempio: duecentomila uomini con sessantamila ufficiali, la cui istruzione può essere suddivisa in quattro corsi trimestrali ogni anno. Educazione militare e sportiva nelle scuole. Preparazione di una completa mobilitazione industriale (armi e munizioni) da realizzarsi in caso di guerra contemporaneamente alla mobilitazione militare. Tutti pronti, con la minore spesa, per una eventuale guerra o una eventuale rivoluzione».
Poichè lo smembramento dell’Impero austro-ungarico è un fatto compiuto, noi crediamo di superare questa concezione propugnando senz’altro l’abolizione della coscrizione, la creazione di un piccolo esercito volontario che organizzerà le nostre colonie e sarà il punto di partenza di una eventuale improvvisazione di grande esercito in caso di guerra.

 

 

2.
La servaccia e i quadri degli antenati.

 

La vita italiana si riduce a una convivenza cretina di quadri d’antenati e di una lurida servaccia.
Sotto i quadri d’antenati senza autorità e senza prestigio che spandono intorno in una penombra tediosa pessimismo, pedantismo, austerità professorale, verbalismo patriottico e polvere di Roma antica, s’aggira sporca taccagna provinciale brindellona la servaccia che fa tutto male, tiene malissimo la casa, non vuole migliorare nulla, perde le giornate a verificare le spese di cucina, ha sempre paura di spendere e di rovinarsi ed è tronfia perchè sa fare una minestra non troppo salata che costa poco.
I quadri d’antenati sussurrano: «ricordate le legioni romane, l’urbe…. I padri conversanti lunghesso il Fiume Sacro….».
La servaccia spiega freneticamente come mediante le sue chiacchiere coi fornitori e la sua pertinacia turbolenta sa conservare il prestigio del padrone di casa, si tiene in buoni rapporti col dottore, ecc. Vanta il suo eroico libero pensiero perchè fa le corna dietro le spalle ai preti. Va però in chiesa, è amica del delegato e sa veramente strangolare una spaventosa economia. La servaccia e i quadri d’antenati si rivoltano ferocemente all’idea di cambiar casa.
Sono d’accordo anche sulla conservazione della polvere, dei tarli, dei topi, della muffa, dei prefetti, ecc.
I quadri d’antenati si chiamano Boselli e Salandra, la servaccia si chiama Giolitti o Bissolati.

 

 

3.
Ideologie sfasciate dalla conflagrazione.

 

1° La conflagrazione ha prodotto lo sfasciamento del concetto religioso della Provvidenza e dell’intervento divino negli avvenimenti terrestri.

 

2° La conflagrazione ha prodotto lo sfasciamento delle logiche e dei sistemi filosofici quadrati e chiusi. Un sintomo: il suicidio tentato dal filosofo Ardigò.

 

3° La conflagrazione ha prodotto la glorificazione della forza brutale e del diritto compenetrati. La conflagrazione cominciò con una aggressione della Forza Bruta al Diritto. Il Diritto, invenzione audace del cervello umano come l’Amore Puro Eterno Unico è un freno ideale creato per contenere nei limiti le forze brutali. Il Diritto però esagerò le sue pretese esagerando in quietismo, pietismo, pacifismo internazionalista, rammollimento fisiologico, ipertrofia del cervello a scapito della muscolatura. Il Diritto così gradualmente minacciava di evirare sviare e ammosciare l’umanità.

Gli Imperi Centrali furono evidentemente scelti dal grande Equilibrio Universale delle forze per ristabilire i diritti della forza brutale contro gli eccessi del Diritto.
Scoppiò la lotta fra il Diritto, gran freno spirituale, e la Forza che ha per ragione d’essere la sua stessa sfrenatezza.
Se gli Imperi Centrali avessero avuto oltre alla forza il genio elastico improvvisatore avrebbero vinto e soppresso le razze avvelenate di pacifismo, che credevano di potersi difendere con
l’unica arma del Diritto. Gli Imperi Centrali avevano invece come zavorra pericolosa il
preparazionismo pedantesco professorale, aprioristico della loro razza, che tolse loro ogni divinazione, ogni agilità improvvisatrice.
L’Intesa, formata di razze malate di pacifismo e padrone assolute del Diritto, fu più volte colpita e quasi atterrata imparando così a proprie spese a valutare la forza brutale e la necessità della violenza e imparando inoltre a svalutare un poco la fragile benchè esistente divinità del Diritto.
L’Intesa vinse gli Imperi Centrali poichè seppe – combattendo – imparare da loro quel poco che potevano insegnare. Dall’Intesa vittoriosa nasce una concezione di nuova umanità veramente
futurista, fatta di violenza rivoluzionaria, elastica, improvvisatrice, eroica di spirito, muscoli, ferro.
Gli Imperi Centrali servirono unicamente a dare con la loro aggressione una lezione di forza brutale al Diritto. Il Diritto esce dalla lotta agilissimo ma inguainato di duttile acciaio.
Non dimentichiamo il favoritismo esplicito e palese che le forze misteriose dimostrarono nel dosare sui campi di battaglia le temperature, le intemperie invernali alle offensive germaniche. Uragani, pioggie, nevi, collaborarono fino all’ultima fase con Hindenburg e Ludendorff. Le forze misteriose dirigevano così la guerra, formidabile coito che tendeva a mescolare e ad equilibrare la Forza e il
Diritto, compenetrandoli in un corpo a corpo sanguinario. La Forza doveva sverginare il Diritto, fecondarlo di nuova forza e morire perchè nascesse un Diritto più forte.

 

4° La conflagrazione ha prodotto coi suoi contraccolpi lo sfasciamento dell’Amor Puro. L’amor puro con tutti i suoi corollarî di fedeltà e di costrizioni matrimoniali è l’esagerazione e degenerazione dell’amore fisico: coito naturale. Così il Pacifismo pietista è l’esagerazione e la degenerazione del Diritto.
La conflagrazione costrinse l’umanità a delle forme d’amore libero, fugace, senza domani.
Abbiamo avuto la fusione delle razze più lontane che si rinforzavano così fisiologicamente.
Molti maschi diversi di razze diversissime venuti da tutte le parti del mondo per unirsi in coiti imprevisti e veloci con una sola donna. Sfasciamento del matrimonio tradizionale, dispersione della famiglia, amore libero e rapido. Sfasciamento delle tradizioni e delle abitudini sentimentali. Bonifica brutale del cuore-pantano dove si ferma la carne-istinto. La conflagrazione, sintesi di patriottismo accanito, di militarismo, di garibaldinismo improvvisatore, di forza rivoluzionaria, d’imperialismo e di spirito democratico, ha sconfessato tutti i partiti politici, ridicolizzato tutti i calcoli diplomatici, frantumato tutti i quietismi, sgretolato o spaccato tutti i passatismi, e rinnovato il mondo. La conflagrazione ha liberato igienicamente il mondo da tutti i mediovalismi (Czarismo, Kaiserismo, ecc.). La conflagrazione ha dimostrato il fallimento inevitabile del
concetto di preparazione metodica di quadratura pesante e di cultura. La conflagrazione ha dimostrato il trionfo del concetto d’improvvisazione elastica intensiva. La preparazione stanca e irrita la Fortuna. L’improvvisazione attira e seduce la Fortuna. La conflagrazione ha sviluppato tutte le scienze e tutti gli sports, velocizzato e centuplicato le comunicazioni terrestri, marine ed aeree.
La conflagrazione ha sventrato a cannonate i cimiteri; dissodato e arato a cannonate le solitudini romantiche; decapitato a cannonate le montagne; sconvolto, sfasciato e vivificato a cannonate le città morte; scavalcato e rovesciato monumenti e cattedrali; condannato alla fame le città passatiste che persistono a vivere sfruttando il loro passato e svalutato e spaventato per sempre la pericolosa e umiliante industria del forestiero.
La conflagrazione ha massacrato il «buon gusto», le delicatezze effemminate, i bizantinismi psicologici, i decadentismi e gli estetismi (Baudelaire, Mallarmé, Oscar Wilde, D’Annunzio) le estasi mistiche, le nostalgie e tutti i sentimentalismi delle rovine. La conflagrazione ha snobilitato, svalutato e ridotto l’amore alle sue proporzioni naturali. Tutti i soldati al fronte sapevano di essere, più o meno, traditi dalle loro donne ma se ne infischiavano. La conflagrazione ha denigrato e preso a calci, col suo vasto massacro a ripetizione, il patriottismo commemorativo che morrà soffocato – lo speriamo – sotto la valanga degli eroi da commemorare.
La conflagrazione ha inspirato ai nostri grandi generali dei proclami duri, veloci, incisivi, balzanti, essenziali, che sono quasi parole in libertà di guerra. La conflagrazione ebbe per oppositori accaniti tutti i nemici del futurismo: conservatori, quietisti, tradizionalisti, clericali, uomini d’ordine, eruditi, archeologhi, critici, professori e avvocati (tipo Barzellotti, Benedetto Croce, Enrico Ferri, Claudio Treves). La conflagrazione ha spento a cannonate le lampade dei filosofi e fatto tremare l’impiantito sotto i podagrosi piedi pensanti dei sedentarî che volevano sgovernare l’Italia dal fondo delle biblioteche e dei musei. La conflagrazione è la nostra prima giovanissima parolibera futurista.
Tutti i partiti politici: conservatori, clericali, democratici, nazionalisti tradizionali, socialisti interventisti, anarchici e socialisti ufficiali si sono trovati a disagio in questa conflagrazione milita-rivoluzionaria.
Noi soli futuristi fummo veramente a posto nella conflagrazione: la prevedemmo, la comprendemmo e ricevemmo le sue confidenze segrete…
La conflagrazione era già tutta contenuta nel 1° Manifesto del futurismo (pubblicato nel «Figaro» di Parigi il 20 febbraio 1909) che sembrò contradittorio e pazzesco, mentre era semplicemente profetico.

 

 

4.
Vecchie idee a braccetto da separare.

 

La politica prima di noi ha vissuto sempre di luoghi comuni o meglio ancora di idee a braccetto che camminavano stupidamente sempre legate da una illusoria parentela che in realtà non esiste.
Quando si dice: monarchia, si pensa immediatamente all’esercito, alla guerra, alla patria, al patriottismo. E questo è ammissibile. Ma è assurdo che dicendo, per esempio, le parole patria, patriottismo, guerra, esercito entusiasta, si debba pensare forzatamente alla idea di monarchia reazionaria.
Quando si dice: nazionalismo, si pensa immediatamente a spirito conservatore, a imperialismo rapace e sistematico, a spirito tradizionale e reazionario, a repressione poliziesca, a militarismo,
ad aristocrazia blasonata, a clericalismo.

Idee a braccetto da separare brutalmente.
Quando si dice: democrazia, si pensa immediatamente a spirito imbelle, umanitario, pacifista, pietista, quietista, rinunciatario, anticoloniale, umile, internazionalista, e senza orgoglio di razza o
negatore delle razze.

Idee a braccetto da separare brutalmente.
Quando si dice: rivoluzione, si pensa immediatamente ad antipatriottismo, a internazionalismo e a pacifismo.
Idee a braccetto da separare brutalmente.
Quando si dice: educazione sportiva, slancio, coraggio, audacia, forza muscolare, mania del record, si pensa immediatamente alla monarchia imperialista o clericale.
Idee a braccetto da separare brutalmente.
Quando si parla di giustizia, di eguaglianza, di libertà, diritti del proletariato, dei contadini e dei nullabbienti e della lotta contro il parassitismo, si pensa immediatamente all’antipatriottismo, all’internazionalismo pacifista, al marxismo, al collettivismo.

Idee a braccetto da separare brutalmente.

Il regno di questi luoghi comuni legati assurdamente insieme per l’eternità ha fatto sì che una delle frasi del primo manifesto futurista pubblicato 11 anni fa, la quale glorifica insieme il patriottismo e il gesto distruttore dei libertarî, sembrò alle mentalità politiche una pazzia o un puro scherzo.
Tutti trovavano assurdo o buffo che l’idea libertaria andasse per la prima volta a braccetto con l’idea di patria. Come mai la parola patriottismo non era quel giorno accompagnata dalla sua amica monarchia d’ordine e reazionaria? Come mai l’idea: gesto distruttore dei libertarî non era quel giorno accompagnata dalla sua inseparabile amica: antipatriottismo?
Stupore enorme nei cervelli così detti politici, i quali si nutrono di luoghi comuni e di ideologie libresche, nella loro assoluta incapacità di interpretare la vita, le razze, le folle, gli individui.
Ma il loro stupore ingigantì maggiormente quando nel maggio glorioso del 1915 videro ad un tratto nelle piazze burrascose di Milano e di Roma passeggiare di nuovo la coppia strana: Gesto distruttore dei libertarî e Patriottismo, con dei nomi nuovi come Mussolini, Corridoni, Corradini, Garibaldi, Marinetti, al grido unico di: Guerra o Rivoluzione.
Noi oggi separiamo l’idea di Patria dall’idea di Monarchia reazionaria e clericale. Uniamo l’idea di Patria con l’idea di Progresso audace e di democrazia rivoluzionaria, antipoliziesca. Ma occorre separare brutalmente una ben più grave unione cretina: quella di queste due idee a braccetto oggi in molti giornali italiani e d’Europa: Società delle Nazioni e Pacificazione della volontà vendicativa dei vinti. E queste altre idee a braccetto: Concessioni ai popoli inferiori e senza civiltà e Conservazione della Pace.
Idee a braccetto assurde.
Per sostenere le forze della Intesa nella grande conflagrazione fu necessario unire l’idea di guerra con l’idea di ultima guerra. E l’idea di vittoria con l’idea di vittoria senza vincitori e senza vinti.
Si pensava vagamente ad una Pace di compromesso, ma si lottava ferocemente per abbattere il nemico.
Come mai si poteva sperare che questo nemico una volta abbattuto pacificasse immediatamente il suo cuore senza covare un desiderio accanito di vendetta?
L’idea di vittoria completa si era stranamente sposata con la idea di una Germania felice di essere stravinta. E l’idea di una Intesa vittoriosa si era stranamente sposata con la idea di una
Intesa quasi mortificata di aver vinto.
I nostri contradittori gridano alla truffa, la chiamano anzi la truffa all’europea. Come! ci gridano: la conflagrazione non servirà dunque a stabilire una Pace eterna? Presto! presto! ad ogni costo,
fondiamo la Società delle Nazioni per impedire la possibilità di una nuova guerra. Nella loro Società delle Nazioni bisognerebbe far sedere intorno all’unico tavolo pacifero i vincitori che erano
stati aggrediti e non avevano voluto la guerra, i vinti che l’avevano brigantescamente ordita, i neutri che l’avevano vigliaccamente contemplata dal balcone, i neonati sani e i neonati rachitici con alcuni popoli marci decrepiti.

Ma bisognerebbe anche che tutti lasciassero fuori dalla porta i loro caratteri tipici: logico orgoglio del vincitore, desiderio logico di vendicarsi nel vinto; sano appetito di neonato forte, nevrosi di
neonato morituro, subdole cocciutaggini di vecchio decrepito, ecc.
La Vita crea, domina e plasma le ideologie. Ogni idea politica è un organismo vivo. I partiti politici sono quasi sempre destinati a diventare dei grandi cadaveri gloriosi. I partiti che ebbero un grande passato sono quelli che mancano oggi di vitalità. Legge futurista. I repubblicani sono oggi ridotti ad un impotente dottrinarismo che si contenta di invocare l’ombra di Mazzini. In realtà Mazzini è vivo come Cavour è vivo, mentre Cappa e Comandini sono dei morti, come Salandra è un morto.
Partendo da queste nostre concezioni futuriste, il futurista Volt dimostra precisamente come non si possa oggi invocare una tradizione, poichè questa tradizione è assolutamente antinazionale:
«La nostra grande vittoria è un fatto assolutamente nuovo nella storia d’Italia. Di fronte alla monumentale imbecillaggine degli «assidui» che ingombrano le colonne dei quotidiani con proposte di archi di trionfo, colonne Vendôme, aquile e trofei da carnevale archeologico, giova oggi più che mai ripetere che la grandezza italiana non ha nulla a che fare con quelle antiche grandezze. Noi non dobbiamo nulla al passato. Unica fra le potenze d’Europa, l’Italia è una nazione che manca di tradizioni nazionali. Viceversa, l’Italia abbonda di tradizioni regionali, anazionali o addirittura antinazionali. Noi esamineremo queste tradizioni nefaste attraverso le varie classi, i vari strati della società italiana.

 

1. Esercito. L’argomento è troppo delicato perchè se ne possa parlare oggi.

 

2. Clero. Si può discutere sulla opportunità di rinfocolare il dissidio fra Chiesa e Stato, ma in ogni modo, questo dissidio esiste, almeno allo stato latente ed è vano negarlo. La ragione di questo dissidio sta appunto nelle tradizioni antinazionali che tenacemente sopravvivono nello organismo della Chiesa Italiana. Vi sono bensì molti cattolici che sono al tempo stesso buoni patrioti ed è da augurarsi che aumentino: ma essi rappresentano nel senso del clericalismo tradizionale una forza rivoluzionaria.

 

3. Aristocrazia. I figli dell’aristocrazia italiana hanno fatto il loro dovere sui campi di battaglia nè più nè meno che i figli del popolo e della borghesia, ma nel suo complesso non si può dire che l’aristocrazia si sia messa alla testa della nostra guerra nazionale. Dalle sguaiate denigrazioni di alcuni «figli di preti» al blando ostruzionismo dei blasonati ammiratori del demagogo di Dronero, il neutralismo ha fatta larga presa nella classe nobiliare.
Ciò si deve all’assenza di tradizioni nazionali nell’albero genealogico delle più antiche famiglie italiane. Queste tradizioni non potevano esserci, per la semplice ragione che l’Italia, come stato unitario, non ha un passato qualsiasi. Bene o male, siamo una nazione di «parvenus». Coloro dunque che nell’aristocrazia italiana si sono «ralliés» al nuovo regime, aderendo entusiasticamente alla nostra ultima guerra d’indipendenza, hanno dovuto per ciò stesso futuristicamente rinnegare le ombre borboniche o austriacanti dei loro antenati. E sono entrati nella vita.

 

4. Borghesia. Ciò che costituisce la gloria della nuova classe dirigente, la borghesia, è la potenza produttiva del lavoro. Ma la recente fioritura delle nostre industrie e del commercio, non si riannoda in alcun modo al passato. L’industria italiana si è modellata sull’esempio dell’industria forestiera; nessuna traccia resta fra noi dell’attività commerciale dei Comuni medioevali e delle gloriose Repubbliche marinare.

 

Ciò che di tradizionale resta nella nostra vita economica è solamente un elemento negativo, un ingombro, una palla di piombo legata al piede! Misoneismo, «routine», abitudini sedentarie, orrore delle innovazioni tecniche, mancanza di iniziativa, paura del rischio, micromania, contenta mento del piccolo e non sudato guadagno, ecco l’eredità che il nostro «grande passato» lasciò alle industrie ed al commercio italiano. È in forza della tradizione, che il contadino si rifiuta di adoperare le nuove macchine agricole, che il banchiere ha paura di dare il suo sussidio alle nuove industrie, che l’industriale si guarda bene di allargare la cerchia delle proprie operazioni. Tutto ciò che di buono è stato fatto nel campo economico, è stato uno schiaffo di più alle così dette «sante memorie». L’Italia non potrà divenire una grande potenza economica, se non riuscirà a sbarazzarsi totalmente del peso della sua tradizione.

 

5. Proletariato. Nella mente dei più il disfattismo popolare è strettamente associato alla idea di rivoluzione. Niente di più falso.

Il disfattismo non è che l’eredità di dieci secoli di servitù nazionale. Esiste, nella plebe italiana, e specialmente nelle campagne, una antichissima tradizione antigovernativa, antimilitarista, anti nazionale, anteriore al socialismo, e che il socialismo non fece che sfruttare abilmente, come la sfruttarono i sanfedisti al tempo non tanto lontano della «guerra del brigantaggio».

Lo spirito che anima certe «leghe» di Romagna è identico nella sostanza allo spirito della mafia siciliana e della camorra napoletana. Il socialismo non ha fatto che sovrapporre la sua etichetta rossa su di una vecchia merce avariata. Del resto basta avere ascoltato certe canzonaccie, rampollate da chi sa quali bassifondi del disfattismo popolare, per sentire come nulla di nuovo, di ardito, nulla di idealmente rivoluzionario vi sia in un tale stato di animo.

È l’uomo primitivo timido e selvatico, che nello stato moderno non vede che il Consiglio di leva e l’esattore delle imposte, il «Moloch» divoratore di uomini e di beni; è il bruto originario, attaccato come una talpa alla miseria della propria tana, che la guerra ha strappato alle querimonie domestiche e alle angustie del mestiere quotidiano, lanciandolo verso il rischio, l’avventura, l’ignoto, rinnovandolo e facendo di lui, suo malgrado, un uomo. Contro quest’opera della guerra, contro questa vera e grande rivoluzione spirituale del popolo italiano, si oppone, sorda e tenace, la resistenza della tradizione. A noi la scelta! La guerra ha posto un dilemma fra il passato e l’avvenire. Da una parte, tutte le forze antinazionali del passato, che si ragrupparono sotto le ambigue insegne del neutralismo. Dall’altra l’Italia. Il grano e il loglio da ardere. La vita contro la morte. Essere futurista, significa avere optato per la vita. Combattere il passatismo, significa combattere una tradizione antinazionale che ha la sua radice nei secoli. Perchè, in Italia, tradizione è sinonimo di disfatta».

 

 

5.
Crollo di filosofi e storici, sibille a rovescio.

 

Quando ho del tempo da perdere mi diverto a guardare attentamente dentro le filosofie, a smontarle, a ricomporle, come i bambini guardano dentro a un orologio, lo smontano e lo ricompongono, senza guardare l’ora segnata dalla freccia, poiché so che certamente quella non è l’ora vera.
I filosofi e gli storici non avevano previsto la conflagrazione, hanno creduto per molto tempo nella invincibilità della Germania. In novembre furono brutalmente rovesciati dal tremendo ceffone della vittoria. Data la pendenza del terreno hanno la testa bassa e i piedi in alto. Io li chiamo Sibille rovesciate o Sibille a rovescio. Sono terrorizzate. Speravano nella quiete e vedono intorno un terreno terremotato con molte mine inquiete. Tremano che il disordine continui.
II terrore è pessimo consigliere. Non capiscono. E come sempre si sbagliano nel prevedere.
Sono le «Sibille a rovescio». Mi spiego: Volete prevedere il futuro? Pensate esattamente il contrario di ciò che prevedono.
Se mormorano piangendo che la rivoluzione sta per scoppiare, è certo che la rivoluzione scoppierà fra 5 anni. Se la prevedono lontana essa può scoppiare stasera. La più caratteristica di queste sibille a rovescio è Guglielmo Ferrero. Pochi mesi prima dell’ultimatum austriaco alla Serbia egli esaltava la invincibilità della Germania e la impossibilità della conflagrazione. In realtà filosofi e storici avendo fatto della filosofia e della storia dei mestieri lucrativi, tengono assolutamente alla immobilità della loro lampada serale sul tavolo ingombro di documenti e temono gli scossoni fragorosi e tetri della piazza rivoluzionaria.
Prendono dunque per realtà l’ideale verdegiallo della loro vigliaccheria sedentaria e editoriale.
Giorgio Sorel in un recente articolo intitolato: «Dubbi sull’avvenire intellettuale» piange sul tradimento intellettuale del filosofo francese Boutroux che «dopo aver consacrato la sua lunga carriera ad insegnare il culto di Kant ha sentito il bisogno di apprenderci che non aveva mai compreso l’insegnamento del vecchio maestro di Konisberga. Il venerato patriarca dell’idealismo trascendentale non sarebbe stato, secondo la nuova vulgata del Boutroux, che un esecrabìle «boche».

Giorgio Sorel vede in ciò una volgare genuflessione davanti al patriottismo rozzo, volgare e cieco. Con la tipica mancanza di intuizione che caratterizza tutti i filosofi, Sorel errava quando dava importanza al pensiero di Boutroux kantiano.
Boutroux, era uno dei tanti professori di filosofia ciecamente innamorati di Hegel e di Kant. La loro paura fisica, la loro tremante sensibilità di topi di biblioteca intravedevano nella filosofia autoritaria germanica un ideale paradiso d’ordine per i molti libri, studi e scartafacci da compulsare e divorare in pace. Naturalmente Boutroux, come tutti i filosofi e storici del mondo s’indignarono di vedere ad un tratto la filosofia autoritaria germanica esplodergli sulla testa volumi d’acciaio e gaz asfissianti.
In realtà non vi era trasformazione. La Germania, dopo avere massacrato il mondo sotto il peso delle sue ideologie pedantesche e professorali, professoralmente e culturalmente bombardava donne, vecchi e bambini con nuovi pesi, nuove indigestioni, feroci, tediose e senza risultato.
Professoralismo aprioristico e cieco quello di Kant e di Hegel.
Professoralismo aprioristico e cieco quello di Boutroux.
Professoralismo aprioristico e cieco quello di Sorel.
Professoralismo aprioristico e cieco quello di Hindenburg e di Ludendorff.

Altrettante pesanti armature ideologiche che dovevano essere sfasciate dalla straripante esplodente realtà.
Noi futuristi non abbiamo mai dato importanza positiva nè a Kant, nè a Hegel, nè a Boutroux, nè a Hindenburg, nè a Ludendorff. Abbiamo previsto dieci anni prima, con sicurezza, la grande
conflagrazione, il crollo della Germania, che priva di facoltà artistica improvvisatrice, creatrice, plasmatrice e rivoluzionaria, non poteva assolutamente vincere.
Eravamo convinti che l’unico ambiente intellettuale favorevole alla comprensione, divinazione, e dominazione delle forze mondiali è l’ambiente futurista che noi sintetizziamo con queste
parole: «guerra o rivoluzione».
Giorgio Sorel dice: «l’arte, la religione, la filosofia sono inseparabili».
Non è vero. La filosofia e la religione sono per noi futuristi due questure create dalla paura dell’al di qua – guerra o rivoluzione – e dalla paura dell’al di là – inferno.
L’arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice.
Il filosofo De Ruggero ed altri filosofi parlano oggi del trionfo del liberalismo (concretato nella Intesa) sullo Stato organizzatore (concretato nella Mitteleuropa). Oppongono il liberalismo
dell’Intesa, figlio dell’individualismo calvinistico della Riforma, all’ordine accentratore della Germania, figlio dell’universalismo teologico del medioevo.

 

Accusano il liberalismo di essersi sciupato nella ideologia democratica della rivoluzione e nello sparpagliamento nazionalistico della restaurazione. Si vede nettamente che prevedevano la sconfitta del liberalismo e si affannano ora a legittimare e a dimostrare naturale il suo trionfo inaspettato con mille cavilli inconcludenti.
Trovano, per esempio, che il liberalismo non era così disgregato come sembrava e che d’altra parte ha manifestato una forza di simpatia e d’attrazione coll’attirare altre idealità liberali e conquistare così un numero sempre crescente di alleati alla Intesa. Benedetto Croce annaspando anche lui per conciliare la sua germanofilia di ieri col suo terrore della rivoluzione d’oggi, parla tremando della vittoria del liberalismo sul tipo di civiltà a base di organizzazione e di centralizzazione.
Spettacolo miserevole di questi poveri ciechi, mutilati dal Passatismo.
È assurdo parlare di liberalismo e di Mitteleuropa organizzatrice.
La conflagrazione segna la vittoria delle razze coalizzate più geniali, più elastiche, più dotate di immaginazione improvvisatrice sulle razze coalizzate meno geniali, meno elastiche, più professorali, ecc.
Fu la sconfitta del filosofumo, del cultoralismo, del criticismo teorico. I filosofi e storici passatisti sono stati sconfitti dagli scugnizzi rivoluzionarî e poeti futuristi.

 

Io scrivevo molto tempo fa:

 

Questa è una guerra

di poeti contro critici
istintivi contro culturali
allievi geniali contro professori pedanti
improvvisatori contro preparatori
elastici contro pesanti
futuristi contro passatisti.

 

 

6.
Idee-muri da sfondare.

 

Vi sono delle idee-muri, e cioè dei difficilissimi problemi da risolvere che i cervelli politici nella loro viltà incapace hanno da tempo abbandonato senza soluzione. Tutti si fermano dinanzi a
queste idee-muri:

1. Il Principio della Famiglia è intangibile.
2. Il Parlamento non è rimpiazzabile.
3. Il Popolo non può vivere senza religione.
4. Non si può abolire il Denaro.
5. La Società non può sussistere senza polizie e questure.
6. Il dissidio fra capitale e lavoratori è insanabile.
7. L’educazione dei bambini deve essere necessariamente a base affettiva.
8. È indispensabile per lo sviluppo di una nazione un lungo periodo di pace senza pericolo di rivoluzione o di guerra.

Altrettante idee-muri da sfondare.

 

 

7.
Contro il matrimonio.

 

La famiglia come è costituita oggi dal matrimonio senza divorzio è assurda, nociva e preistorica. Quasi sempre un carcere. Spesso una tenda di beduini con la lurida mescolanza di vecchi invalidi, donne, bambini, porci, asini, cammelli, galline e sterco. La sala da pranzo familiare è il bicotidiano scaricatoio di bile, malumore, pregiudizî e pettegolezzi.
In questa grottesca pigiatura di anime e di nervi la noia continua e le vane irritabilità spremono e corrodono sistematicamente ogni slancio personale, ogni iniziativa giovanile, ogni decisione pratica e fattiva.
I caratteri più energici e più marcati si consumano in questo sfregamento assiduo di gomiti. Avviene un contagio e talvolta una vera epidemia di cretinerie ingigantite, di manie catastrofiche, di tics nervosi che si converte o in un meccanicismo di truppa tedesca o in uno sbrindellamento di emigranti nella stiva.
Rimbalzano i capricci femminili e le prodigalità dei bambini sull’apoplettica cocciutaggine dei padri avari. Si scolorano le faccie primaverili intorno ad una agonia che dura dieci anni. Una vittima, due vittime, tre martiri, un carnefice, una pazza assoluta, un tiranno che perde il potere.
Tutti soffrono, si deprimono, si esauriscono, incretiniscono, in nome di una divinità spaventosa da rovesciare: il sentimento.
Corridoi di liti cretine, litanie di rimproveri, impossibilità di pensare, creare da sè. Si guazza nel pantano quotidiano della sudicia economia domestica e delle volgarità banali.
Se la famiglia funziona male è un inferno di complotti, liti, tradimenti, dispetti, bassezze e relativo desiderio di evasione e di rivolta in tutti. Gelosia a coltello fra madre e figlia eleganti e belle; duello di avarizia e di sperpero fra padre conservatore e goliardismo del figlio. Dovunque in Italia il triste spettacolo del padre ricco egoista che vuole imporre la solita professione seria al figlio poeta, artista, ecc.
Se la famiglia funziona bene, vischìo del sentimento, pietra tombale della tenerezza materna. Quotidiana scuola di paura.
Vigliaccheria fisica e morale davanti a un raffreddore, un gesto nuovo, un’idea nuova.
La famiglia che nasce quasi sempre, per la donna, da una legale compra-vendita d’anima e di corpo, diventa una mascherata di ipocrisie oppure la facciata saggia dietro la quale si svolge una prostituzione legale incipriata di moralismo.
Tutto questo in nome di una divinità spaventosa da rovesciare:
il Sentimento.
Noi proclamiamo che il Sentimento è la virtù tipica dei vegetali, di abbarbicarsi e piantar radici. Diventa un vizio negli animali, un delitto negli uomini, poichè ne incatena fatalmente il dinamismo e la evoluzione veloce.
Dire: la mia donna non può essere altro che una cretineria infantile o una espressione da negrieri. La donna è mia quanto io sono suo, oggi, in questo momento, per un’ora, un mese, due anni, secondo il volo della sua fantasia e la forza del mio magnetismo animale o ascendente intellettuale.
La famiglia con la parola mia moglie, mio marito, stabilisce nettamente la legge dell’adulterio ad ogni costo o della prostituzione mascherata ad ogni costo. Ne nasce una scuola d’ipocrisia, di tradimento e di equivoco.
Noi vogliamo distruggere non soltanto la proprietà della terra, ma anche la proprietà della donna. Chi non sa lavorare il campo deve esserne spodestato. Chi non sa dare gioie e forza alla donna non deve imporle il suo amplesso nè la sua compagnia.
La donna non appartiene a un uomo, ma bensì all’avvenire e allo sviluppo della razza.
Noi vogliamo che una donna ami un uomo e gli si conceda per il tempo che vuole; poi, non vincolata da contratto, nè da tribunali moralistici, metta alla luce una creatura che la società deve educare fisicamente e intellettualmente ad un’alta concezione di libertà italiana.
Una sola educatrice basta a favorire e difendere senza costrizione il primo sviluppo di 100 bambini, i quali avranno per prima percezione dominante la necessità di costruire il proprio coraggio, l’urgenza di risolvere personalmente e al più presto i minuti problemi fisici di equilibrio e di nutrimento; verrà completamente abolita quella atmosfera di piagnucolamenti e di mani aggrappate alle gonne e di baciucchiamenti morbosi che costituiscono la prima fanciullezza.
Sarà finalmente abolita la mescolanza di maschi e femmine che – nella prima età – produce una dannosa effemminazione dei maschi.
I bambini maschi devono – secondo noi – svilupparsi lontano dalle bambine perchè i loro primi giuochi sieno nettamente maschili, cioè privi d’ogni morbosità affettiva, d’ogni delicatezza donnesca, vivaci, battaglieri, muscolari, e violentemente dinamici. La convivenza di bambini e di bambine produce sempre un ritardo nella formazione del carattere dei bambini che immancabilmente subiscono il fascino e la seduzione imperativa della piccola femmina come piccoli cicisbei o piccoli schiavi stupidi.
Sarà finalmente abolita l’abbietta caccia al partito e il balordo calvario delle madri affannose che portano su per le feste da ballo e le stazioni balneari le loro ragazze da sposare, come croci pesanti da piantare nel Golgota cretino di un buon matrimonio. «Bisogna metterle a posto» – nel letto di un tubercolotico, sotto la lingua di un vecchio, sotto i pugni di un nevrastenico, fra le pagine di un dizionario come una foglia secca, in una tomba, in una cassaforte o in una cloaca, ma bisogna «metterle a posto».
Strangolamento feroce del cuore e dei sensi di una vergine che fatalmente considera la prostituzione legale del matrimonio come una condizione indispensabile per raggiungere la mezza libertà dell’adulterio e la riconquista del suo io mediante il tradimento. La vasta partecipazione delle donne al lavoro nazionale prodotto dalla guerra, ha creato un tipico grottesco matrimoniale:
Il marito possedeva del denaro o ne guadagnava, ora l’ha perduto e stenta a riguadagnarne. Sua moglie lavora e trova il modo di guadagnare un denaro abbondante in un momento in cui la vita è eccezionalmente costosa.
La moglie ha per il suo lavoro stesso la necessità di una vita poco casalinga, il marito invece non lavorando concentra tutta la sua attività in una assurda preoccupazione di ordine casalingo. Rovesciamento completo di una famiglia dove il marito è diventato una donna inutile con prepotenze maschili e la moglie ha raddoppiato il suo valore umano e sociale.
Urto inevitabile fra i due soci, conflitto e sconfitta dell’uomo.

 

 

8.
Orgoglio italiano rivoluzionario e libero amore.

 

Il matrimonio è una forma di barbarie che non avrebbe potuto reggere senza la grande valvola dell’adulterio.
La schiavitù assurda nella quale si compiace la donna fra le catene e le trappole della cretinissima gelosia ha come unica scusa la difesa del figlio.
Lo stato deve occuparsi della educazione fisica morale, intellettuale, patriottica del figlio. Consacrando una educatrice a cento bambini si liberano circa 30 madri da un’inutile fatica assorbente e si educano virilmente cento bambini senza viltà effemminatrici e morbosità sentimentali.

Il matrimonio deprime e avvilisce la donna abbreviandone la gioventù e troncandone le forze spirituali e fisiche. Il matrimonio scoraggia e soffoca lo sviluppo del figlio, tronca la gioventù e la forza virile del padre, effemmina l’adolescente, monotonizza e affloscia in un ambiente di mediocrità tre o più individui che avrebbero dato il loro massimo rendimento slegati
in libertà e in piena avventura.
Il matrimonio è un nemico di ogni audacia e di ogni eroismo. Noi non ci preoccupiamo soltanto di libertà e di sincerità, ma specialmente di eroismo.
La conflagrazione futurista del mondo avendo centuplicato le speranze, le volontà e le audacie dello spirito umano impone al Genio privilegiato della razza italiana di liberarsi primo fra tutti dalle vecchie forme di passatismo per dare al mondo tutta la sua potenza di luce e d’entusiasmo rinnovatore.

Mediante il divorzio facile, il voto alle donne e la partecipazione completa delle donne all’attività nazionale noi distruggeremo il matrimonio e giungeremo all’amore libero. Avremo un inevitabile periodo in cui regnerà una perniciosa promiscuità sessuale, periodo breve che la donna supererà giungendo ad una maggiore coscienza di scelta sessuale e ad una raddoppiata cerebralità.
L’individualità della donna non si può ottenere che a questo prezzo. L’amore svalutato e rimesso a parte fra i valori della vita umana, l’affettività e il sentimentalismo energicamente guariti come malattie, avremo madri, padri e figli che dopo avere compiuto la loro funzione umana saranno capaci di vivere un’alta liberissima vita di continuo superamento, di eroismo e di sinceritàsolidale.
Siamo antimperialisti.
Crediamo che ogni razza sia predisposta a un primato speciale in un dato campo della attività. Crediamo pure che non vi sia razza predisposta alla egemonia mondiale.
L’Italia, che non può nè potrà mai vincere tutte le concorrenze nell’agricoltura, nel commercio e nella industria, deve invece conquistare il suo primato assoluto nel pensiero, nell’arte, nella scienza.
La vittoria che ha liberato l’Italia dal suo nemico ereditario minaccioso o preoccupante le impone di rompere subito tutte le tradizioni moderatrici e tutti i passatismi ingombranti per assurgere al suo ufficio di illuminatrice mondiale.
Si impongano dunque i seguenti sgombri immediati:
/# 1° Papato, Monarchia, Parlamento, Senato, matrimonio, coscrizione, burocrazia, anzianità, proprietà, latifondismo e tutte le forme di parassitismo antiproduttore e di ricchezza stagnante.#/
La famiglia stabilisce una disuguaglianza di partenze con vantaggi o svantaggi per i giovani corridori della vita.
Vogliamo una corsa con severo controllo di partenze perchè i vincitori siano veramente i migliori, siano coloro che non privilegiati o poco privilegiati avranno dato veramente il massimo sforzo. Tutti poveri ma padroni assoluti di tutte le loro forze. La nostra strepitosa vittoria militare che ha coronato quattro anni di stupefacenti sforzi eroici impone alla nostra razza un dovere smisurato.
Noi futuristi esigiamo dunque dalla nostra razza che costringa fino allo spasimo la sua muscolatura, faccia un nuovo spaventevole sforzo per giungere ad ogni costo in alto, molto più in alto, dando il suo massimo rendimento. Deve annientare tutte le sue debolezze per superarsi.
Il Futurista Arturo Blangino riassume queste nostre idee futuriste nel seguente manifesto:

«Alla Guerra Vittoriosa e Gloriosa che l’umanità civile sta combattendo contro l’oscurantismo, contro l’egemonie imperialistiche e dispotiche, contro la barbarie teutona e teutonizzata, contro il passatismo conservatore ed ammuffito, seguirà indubbiamente, stante l’ecatombe del sesso maschio, primo materiale di resistenza e di offesa, lo spopolamento di quelle Nazioni che, ubbidendo all’impulso nuovo di conquista e di gloria, vi parteciparono. E mentre scarseggia il materiale umano uomo abile, aumenta l’esuberanza della donna in rapporto all’esiguità dei primi.
La donna, primo deposito e fabbrica di munizioni umane, deve necessariamente in questi tempi di stasi commerciale e procreatrice, sospendere momentaneamente la sua produzione di prole, con incalcolabile danno delle singole Nazioni, perché devesi solo al numero illimitato di uomini forti del quale poterono disporre i rispettivi stati, se in questa guerra alcuni di essi resistettero gloriosamente ad invasioni di altri più forti, più crudeli, più sanguinarî, più ammaestrati alla Guerra.
Per prevenire che un’inevitabile futura conflagrazione ci trovi in condizioni da non poter far fronte vantaggiosamente e vittoriosamente ad invasori o ad oppressori limitrofi, occorre fin d’ora provvedere ad utilizzare tutte le forze produttrici del sesso femmina.
L’abolizione del matrimonio.
Il primo e più importante provvedimento, occorrente per evitare lo spopolamento e favorire la libera procreazione è l’abolizione del matrimonio. Due esseri di diverso sesso sentono nascere tra di loro una reciproca simpatia e vorrebbero unirsi carnalmente per soddisfare il loro amore sensuale, ma il maschio non trova sempre consenziente la femmina, la quale si oppone perchè teme che dopo l’amplesso fecondativo, l’uomo l’abbandoni, teme il disonore da quell’accoppiamento carnale. Il maschio quindi, per poter godere carnalmente la donna amata, deve unirsela in matrimonio e quando pel sacrificio di Imene la vita dell’uno è consacrata eternamente alla vita dell’altra, quando reciprocamente essi hanno monopolizzate le forze vitali rispettive, entrambi i coniugi tentano allora ogni mezzo lecito od illecito per godere il più possibile l’ebbrezza dei sensi, ma senza procreare prole numerosa, perchè le finanze famigliari non possono permettere tale lusso.
L’uomo poi, dopo aver goduta a sazietà la sua donna, per l’istinto stesso del maschio il più delle volte ai annoia facilmente di quella monotonia di piacere, e va a cercare fuori delle pareti domestiche nuovi focolari di godimento sensuale, ed entra nelle putride case di tolleranza, covi ributtanti di insidiose malattie veneree, di sentimentalità passatista e di mercantilismo, per trovar nuove ebbrezze sconosciute che lo snervino e lo soddisfino, e ciò con incalcolabile suo danno morale e materiale. Ma non è a lui uomo maschio che si de e imputare la colpa di quel pervertimento sensuale, non è a lui che si deve imputare la colpa di quell’avidità di piacere nuovo che egli si procura ovunque e comunque pur di sfogare il suo desiderio di procreazione: la colpa è della società passatista, ignorante e fossilizzata dai convenzionalismi antichi, dai vecchi pregiudizii, la quale lo obbliga ingiustamente a monopolizzare il suo istinto sensuale, la sua mascolinità, congiungendolo in matrimonio con una donna sola!…
Gettiamo lontano da noi le ultime vestigia barbariche di passatismo che, simili a impure scorie di infami putridità millenarie, ancora aderiscono alle nostre coscienze, che il clericalume retrogrado ha voluto foggiare a sua immagine con raschiature rancide di inutili religioni, con belletti di ridicola
serietà, con masturbazioni di falsa morale, con siringate di ambigua convenienza, con stroncature di inutile buon gusto, con scampoli tarlati d’arte a buon mercato; liberiamoci da tutto ciò che è convenzione, che è tradizione, da tutto ciò che si fa perché si è sempre fatto, seppelliamo la esperienza barcollante dei vecchi rimbecilliti, glorifichiamo la bellezza futurista cruenta e purificatrice della Guerra, immenso pennello che stria di rosso violento la superficie giallo-nera del nostro globo troppo sacro, troppo decrepito per sostenerci e del quale cantiamo il prossimo sfacelo e il rinnovamento novello, esaltiamo la poesia sublime della violenza carnale, propugniamo l’abolizione delle false verginità claustrali, gridiamo[1] l’inno di odio contro le rovine putride delle città passatiste, contro i musei, contro le biblioteche, contro tutto ciò che è bello, che è regolare, che è perfetto, ed allora nulla ci parrà paradossale, di nulla ci parrà dubbia l’attuazione, liberiamo le nostre coscienze dalle catene che le rendevano schiave della tradizione e allora si schiuderanno le vie dell’antiveggenza e del progresso!

La Tassa di filiatico e gli Istituti di allevamento della prole. Liberate l’uomo e la donna dal rito passatista del matrimonio, lasciateli liberi di pensare, di agire e di liberamente procreare come i loro sensi e le loro volontà dettano, date anche alla donna l’indipendenza e il mezzo per decorosamente vivere, non esecrate la giovane colpevolmente incinta, anzi all’opposto rendetele onore perché solo se è madre essa può degnamente chiamarsi donna, se è sterile essa è una femmina ignobile mercantessa di piacere; istituite una nuova tassa da pagarsi da tutti gli uomini abili a procreare, dai 18 ai 50 anni, tassa che potrà giustamente chiamarsi tassa di filiatico: coi proventi di questa imposta che renderà indubbiamente parecchi milioni (perchè nessuno ricuserà di pagare una somma annuale anche elevata sapendo che egli è completamente libero di amare a suo piacimento, senza il torturante assillo delle conseguenze dei suoi atti, sapendo che con tale piccolo sacrificio pecuniario resta liberato dalle noie della famiglia e dei figli) fondate in tutte le città degli Istituti Governativi di allevamento e di educazione della prole, eguagliate, abolite la differenza morale tra il figlio bastardo e il figlio legale, evitate la miseria delle famiglie con prole numerosa, abolite i postriboli che infestano indecorosamente le vostre città; non lasciate sprecare inutilmente l’umore fecondante del maschio in uteri sterili e putridi, fate che ogni goccia della sua vitalità sia germe di nuova vita per un suddito, per un soldato futuro, ed ecco che allo Stato non mancherà mai materiale umano per difenderlo, per sfruttare le sue ricchezze, ecc.
Nell’Istituto di allevamento e di educazione della prole, che dovrà essere gestione di Stato, le donne prossime ad aver figli saranno gratuitamente ricoverate, circondate dalle maggiori cure ed attenzioni ed il figlio loro, al quale sarà assegnato un numero progressivo di matricola, sarà ricoverato ed allevato con cure più che materne. Giunto in adeguata età si darà a lui una libera educazione senza pregiudizî di false religioni, curando essenzialmente la sua educazione fisica, si cercherà attentamente di scoprire le sue attitudini, le sue tendenze più spiccate, e si avvierà ad un’arte, ad una professione o ad un mestiere secondo la sua volontà e la sua capacità. Esso non dovrà avere alcuna
riconoscenza, alcun obbligo di affetto nè verso l’Istituto, nè verso i genitori: non al primo perché egli, appena ne avrà la capacità, pagherà allo stesso la sua tassa di filiatico, non ai secondi perchè
non li conoscerà.
Quanti artisti, quanti innovatori, quanti genii fervidi e potenti ai quali d’umanità e le stupide convenzioni passatiste hanno impedito il prodursi e l’espandersi perchè questi avendo i genitori poveri hanno dovuto troncare gli studi per andare in età ancor giovine alle fumiganti officine, ai campi fertili per rendere come merce, come schiavi!….
L’Istituto poi oltre ai proventi che percepirà dal comune pagamento della tassa di filiatico, avrà anche facoltà di ricevere i lasciti ereditarî che genitori ricchi di figli ricoverati devolveranno allo Istituto, altamente utile e umanitario, perchè con essi provveda alle migliori comodità al miglior modo di educare ed allevare i giovani ad esso assegnati.
In questo modo avverrà la diminuzione delle grandi proprietà private, dei ricchi speculatori, accomunando le sostanze ed eguagliando equamente ogni singolo cittadino.

 

L’emancipazione della donna.

 

Alla donna poi non si dovrà dare una educazione diversa di quella che si dà all’uomo, essa dovrà, come lui, avere una cultura o un impiego, sempre secondo la sua volontà, le sue tendenze, le sue aspirazioni, che le permetta di agiatamente vivere senza che ella abbia a gravare sull’uomo, e l’Istituto di allevamento, oltre ad uno speciale compenso fisso che darà alla donna che ricoverata in istato interessante avrà figli sani, sarà anche tenuto ad indennizzarla per le giornate di lavoro o d’impiego perdute durante il corso della malattia e la convalescenza, con l’obbligo da parte del principale di riaccettare l’impiegata o l’operaia da lui dipendente non appena essa sarà in grado di nuovamente e bene attendere alle sue mansioni.
In tal modo non vi saranno più povere donne che scoraggiate per l’abbandono e l’abiezione in cui la ignorante società passatista le getta perchè un momentaneo impulso di esuberante giovinezza ha fatto loro perdere ciò che chiamasi l’onore, si dànno alla prostituzione, rendendosi vili schiave di drudi laidi, schiave delle voglie sensuali di uomini che, se pienamente scusabili ora non lo sarebbero certamente se la teoria nostra fosse concretata, sperdono inutilmente le loro forze vitali senza proficuità alcuna; non vi saranno più femmine che si sposano coll’illusione di poter campare alle spalle di un qualunque minchione «che di lor si carca» e che invece fanno della compassionevole miseria resa ancor più triste e dolorosa quando a completare lo straziante quadro s’aggiungon altri piccoli esseri umani innocenti che crescono ignoranti e brutali e che, lasciati in continuo abbandono da genitori più disgraziati che colpevoli, il più delle volte nell’impossibilità materiale di curare la loro educazione, s’aggiungono allo stuolo, non esiguo certo, dei teppisti da strada, dei malviventi, fannulloni, ecc.
Se i moderni legislatori invece di perdere del prezioso tempo in inutili diatribe su puerili questioni personali o in facili discorsi, recipienti di vento ricolmi di vacue parole inconcludenti, su ridicole limitazioni di consumi e di orari, s’occupassero della miseria incipiente e del pauperismo doloroso in cui versa il proletariato mondiale, vedrebbero ad esuberanza l’utilità, la praticità e l’umanità della nostra proposta.
Non occorre solo recriminare lo spopolamento degli Stati in cui la Guerra ha esaurito il materiale più necessario e più giovane, ma prevenirlo bisogna e non attendere oltre evitando che la piaga
s’allarghi disastrosamente e irrimediabilmente.
Il maggior incubo per i genitori poveri o quasi (sono il 90 per cento!) è il mantenimento dei figli: il peggior legame per i figli è la continua attestazione di riconoscenza, di affetto e di servilismo a quei genitori che li hanno procreati per un loro bisogno, per un loro piacere erotico costato troppo caro e con troppo tristi conseguenze e poi non li hanno lasciati liberi di agire e di pensare come credevano, non li hanno lasciati studiare o lavorare a loro piacimento o perché le finanze della famiglia non erano tali da permettere il lusso di un figlio all’Università o perché il decoro della famiglia non permetteva ad un figlio l’esercizio di una professione manuale.

Conclusioni futuriste.

Per evitare lo spopolamento, terribile per la garanzia futura dell’integrità dei territori nazionali occorre:

1° Abolire il matrimonio perchè dannoso alla libera procreazione e non rispondente ai giusti scopi di umanità e di libertà;

2° Permettere all’uomo maschio il possesso di più femmine e viceversa;

3° Favorire il libero amplesso;

4° Rendere la donna indipendente al pari dell’uomo dando ad essa il mezzo di vivere senza bisogno di fare la mantenuta del maschio. Onorarla se s’approssima a diventare madre, proteggerla, glorificarla perchè essa è il simbolo della proprietà di uno stato;

5° Istituire la tassa di filiatico a carico di tutti quegli uomini atti a procreare figli sani;

6° Col reddito di questa tassa fondare in tutte le città degli Istituti di allevamento e di educazione della prole, la cui gestione appartenga allo stato, ove i figli saranno allevati, educati ed avviati ad un’arte, professione o mestiere secondo le loro tendenze e volontà, tutto a spese del Governo, senza alcuna ingerenza o compartecipazione dei genitori;

7° Eguagliare i figli bastardi ai figli legali;

8° Dichiarare in seguito alla libertà di procreazione l’inutilità dei postriboli ed abolirli e vietarli come pericolosi e nocivi alla salute e agli interessi della Nazione;

9° Spogliarsi dal ridicolo sentimentalismo della santità della famiglia, dell’amore fraterno, paterno, figliale, materno, liberarsi da tutto ciò che significa poesia, sentimentalismo, gelosia, amore ideale o platonico, da tutto ciò che in una parola sola suona convenzioni passatiste, tradizione, usanza, esperienza, sapienza e castità.

 

ARTURO BLANGINO».

 

 

9.
La Democrazia futurista.

 

L’orgoglio italiano non deve essere, non è imperialismo che spera imporre industrie, accaparrare commerci, inondare di prodotti agricoli.
Noi difettiamo di materie prime, e siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre. Il nostro orgoglio italiano è basato sulla superiorità nostra come quantità enorme di individui geniali.
Vogliamo dunque creare una vera democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e l’esaltazione del numero poiché avrà il maggior numero di individui geniali.

L’Italia rappresenta nel mondo una specie di minoranza genialissima tutta costituita di individui superiori alla media umana per forza creatrice innovatrice improvvisatrice.
Questa democrazia entrerà naturalmente in competizione con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca, cioè democrazia incosciente.
Su 1000 slavi vi sono due o tre individui.
L’ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che non vi è gruppo d’italiani (20, 30 o 40) che non contenga almeno 10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva personale.
Abbiamo ancora da sgombrare papa, monarchia, parlamento, senato e burocrazia e da bonificare le zone morte dell’analfabetismo. Questo còmpito molto arduo con un nemico minaccioso alle porte è oggi còmpito facile e senza pericoli per la unità e indipendenza nazionale.
Nazione ricca di individui geniali, democrazia intelligentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di tipi unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente, industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare il mondo e dirigerlo con la sua maggiore potenzialità e altezza di luce.
Noi crediamo che l’ora è venuta di tentare tutte le rivoluzioni per liberare il popolo italiano da tutti i pesi morti e da tutti i ceppi (matrimonio e famiglia cattolica soffocatrice, pedantismo
professorale, elettoralismo, mentalità pessimistica, provinciale mediocrista e quietista).
Liberata dal giogo della vecchia famiglia tradizionale, dal dogma dell’anzianità, dal parlamento, dal senato, dal papato e dalla monarchia, l’Italia manifesterà finalmente la sua potenza di
40 milioni d’individui italiani tutti intelligenti e capaci di autonomia. Concezione assolutamente opposta alla cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di individui italiani per organizzarli meccanicamente.
Sul palcoscenico della razza italiana dobbiamo mettere in luce i 40 milioni di ruoli diversi perchè in questa luce possa perfettamente svolgersi il valore tipico di ognuno. Disfatto l’impero austro-ungarico il popolo italiano non deve temere le scosse anche disastrose (promiscuità sessuale, distruzione di ricchezza) prodotte da una rivoluzione profonda. Saranno scosse brevi. Da una rivoluzione, oggi il popolo italiano risorgerà più vivo e potente, più ricco di individui geniali,
più agile, più dinamico.
Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia, la neghittosità, il misticismo, il bizantinismo ideologico, l’ossessione teorificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di tenacia costruttrice di ingegnosità inesauribile, di eroismo bene impiegato.
Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare e disfare al numero, alla quantità, alla massa poichè da noi numero quantità e massa non saranno mai come in Germania e Russia numero quantità e massa di mediocri d’inetti e di sconclusionati.
Arturo Labriola definisce la democrazia «come sentimento dei diritti concreti della massa sullo Stato e sulla Economia».
Noi futuristi consideriamo la democrazia non in astratto ma bensì la «democrazia italiana». Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica. Vi sono numerose democrazie; ogni razza ha la sua democrazia, come ogni razza ha il suo femminismo.
Noi intendiamo la democrazia italiana come massa di individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente del suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire statale.
La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule morte (tradizione), meno il peso delle cellule malate (incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana, è per noi un corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne la velocità e centuplicarne il rendimento.
La democrazia italiana si trova oggi nell’ambiente più favorevole al suo sviluppo. Ambiente di rivoluzione-guerra nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi casi-problemi, fra le mille punte di altri problemi insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una influenza sul suo avvenire. Necessità igienica di continua ginnastica trasformatrice, improvvisatrice.
Il governo si allarma oggi nel vedere formarsi innumerevoli associazioni di combattenti. Se non fosse un governo di miopi reazionari tremanti di paura accoglierebbe favorevolmente questo nuovo ritorno di vitalità italiana. La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di 4 o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, arricchiti di una personalità politica.
È la prima volta nella storia che più di quattro milioni di cittadini di una nazione hanno la fortuna di subire in soli 4 anni un’educazione intensiva e completa con lezioni di fuoco, di eroismo e di morte. Spettacolo meraviglioso di tutto un esercito partito per la guerra quasi inconsciente e ritornato politico e degno di governare.
La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poichè sente vibrare tutte le sue cellule vive. Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le porte e di uscire all’aperto. Il governo si allarma, reprime e trema, come la nonna leggendaria teme che il nipotino pigli un raffreddore.
Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole, spalancato, beve il mare di liquido quasi solido saporito, azzurro, tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all’ultimo sorso.

 

 

10.
Contro il Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni
passatismo.

 

Inutile enumerare le ragioni politiche che rendono indispensabile per l’Italia vittoriosa il liberarsi, al più presto, del Papato.
Cavour e Crispi e cento altri italiani hanno dimostrato come il Papato sia in tempo di pace un peso ingombrante e in tempi convulsi o guerreschi un nemico in casa o per lo meno una spia.
Io domando l’espulsione del Papato per sgombrare l’Italia dalla mentalità cattolica. Non si può toccare il principio della famiglia e la concezione giuridica del matrimonio fintanto che permane la forza del prete. Questi fa pesare sulla vita l’assurda idea antivitale di eternità. Eternità dei valori spirituali, eternità di gioia nel paradiso extra terrestre e perciò eternità assurda dell’amore sulla terra.
Un uomo che ama una donna deve amarla per tutta la vita. Se cessa di amarla dopo tre anni, grave disordine morale, allarme, spavento.

Se cessa di amarla dopo tre mesi, scandalo diabolico, peccato infame, sanzioni infernali.
Il prete creò il più assurdo dei carceri, il matrimonio indissolubile. Così per evitare che la legge dell’amore eterno sia violata, il prete imprigionò il cuore e i sensi della donna, costringendola a fingere l’amore, a prostituirsi ogni sera ad un uomo odiato, sviluppando nella sua sensibilità e intorno a sè e ciò che è più grave – nei suoi figli – la necessità schifosa di una ipocrisia continua.
Assurda concezione dell’amore eterno, assiduità artificiale delle attrazioni erotiche, il prete non si contenta di questi veleni perniciosi, ma combatte anche l’istinto coraggioso dell’avventura e del rischio e il meraviglioso spirito d’improvvisazione che anima gli individui forti e i temperamenti ricchi.
Il prete odia il provvisorio, il momentaneo, la velocità, lo slancio, la passione. E in ciò cancella brutalmente l’essenza ardente, preziosa, della morale di Cristo che accordava tutti i diritti e tutti i perdoni e tutte le simpatie al fervore appassionato, alla fiamma volubile del cuore. Il prete dimentica che la frase di Cristo alla Maddalena: Molto sarà perdonato a chi molto ha amato. E quest’altra: Colui che è senza peccato scagli la prima pietra, sono due glorificazioni del libero amore e due calci alla indissolubilità del matrimonio.
Se la donna, come avviene sovente, è stata desiderata, presa e fecondata spensieratamente dal maschio il prete vuole che questa donna non sia sottoposta a nessun rischio, a nessuna nuova avventura. Subito, nel carcere del matrimonio, a braccetto con un uomo che non la vuole più, che la odia come un ingombro. Due pugnali legati insieme, entrambi inutilizzabili e che sognano di lottare fra di loro, si smusseranno i tagli e finiranno per ferire il figlio. Questo nasce florido come un frutto, ma diventa presto una palla che inciampa i due galeotti.
Assurda concezione dell’amore eterno, legami indissolubili fra corpi-anime che si ripugnano, legge della ipocrisia e spettacolo di odio dato quotidianamente come educazione al figlio. Ma il prete non si contenta. Dice, non siete felici? Lo sarete in Paradiso!
Sfiorite tutte e due! Logoratevi! Sciupate tenerezza, bellezza, baci, forza fisiologica, nervi, rimandate il vostro adulterio a quando sarete in Paradiso.
Così il matrimonio è il comune purgatorio di tutti i temperamenti rigogliosi e potenti. Purgatorio di peccati inesistenti, logorìo di gioventù, tutto in omaggio a un’assurda mentalità negatrice, deprimente, sopraffattrice che non ammette il trionfale sviluppo della gioia fisiologica e della libertà rischiosa e temeraria.
Il prete vuole ed impone le leggi immonde della rinuncia e della lentezza.
Così dovunque in questa nostra Italia sana e forte noi troviamo tante anime agonizzanti, stroncate: donne che non han saputo decidersi, che hanno amato l’uno e si son date all’altro, sperano nel terzo e si daranno al quarto. Sempre sbagliandosi, aspettando sempre con una cretinissima pessimistica valutazione della vita, condannate, condannati, incapaci di concedersi le assoluzioni fulminee e le liberazioni allegre dell’uragano, della pioggia, e del suicidio.
Per giungere alla concezione futurista del provvisorio, del veloce e dell’eroico sforzo continuo, bisogna bruciare la tonaca nera, simbolo di lentezza e fondere tutte le campane per farne  altrettante rotaie di nuovi treni ultra-veloci.
La lentezza, il prepararsi quotidianamente ad una gioia lontana poco sicura che involontariamente l’immaginazione butterà poi al di là della morte in paradiso, questo paziente preparazionismo cattolico misticoide è molto simile al preparazionismo militare tedesco che è crollato ora -fortunatamente – in una grande sconfitta.
La nostra fulminea vittoria italiana, dieci giorni di offensiva e tutte le terre riconquistate, i sogni politici dei nostri padri colti al volo, realizzati, inchiodati, tutte queste glorie nostre sono anticattoliche. Finalmente la lentezza imposta dal prete è stata travolta. La velocità tempestosa del genio italiano ci libera da tutto un medioevalismo minuzioso a base di sacrificio, di sogno estatico, di mani mendicanti, d’inginocchiatoi, di diplomazie, d’irredentismi platonici e di nostalgie professorali.
Finalmente non guardiamo più dietro di noi i lontanissimi cortei di eroi romani. Ci guardiamo nello speccchio: noi, siamo noi. Gli italiani d’oggi veloci che a dispetto di tutte le prudenze storiche, a dispetto di tutti i pessimismi, balzati fuori da una famiglia cattolica mediocrista soffocata da ruderi illustri, fuori dall’elettoralismo miserabile di provincia e dalla taccagneria degli
impieghi governativi, siamo noi che abbiamo sfasciate in dieci giorni – giocondamente come ragazzi- il grande esercito austroungarico invincibile nel sogno – giuocattolo fra le nostre mani potentissime, in realtà.
Questa famiglia provinciale col suo matrimonio ipocrita, il prete lurido custode, gli scorpioni del moralismo a tutte le crepe dei muri, bisogna al più presto col fuoco annientarla. Dopo il fuoco, per spegnerlo, abbondanti sputacchi in velocità. Il prete è fratello del carabiniere. Carcere del matrimonio indissolubile. Il divorzio e il libero amore sono due arditi pericolosi. Cantano quando gli altri dormono e spaccano sovente i vetri – ventri ai passatisti. È passatista colui che teme, che si acquatta, che non accetta responsabilità, che ricorda malinconicamente, che prende le idee dal quotidiano più saggio, che non osa interrogare suo figlio sulla sua evidente blenorragia, che crede cementare il sesso vivace della sua bambina sedicenne chiudendola in casa con catenacci di paternali idiote. Mentre egli va – ipocritamente – a fumare la pipa in un bordello per narrare omericamente sull’origliere a una prostituta i difetti di sua moglie, sua figlia chiusa in casa spalanca la finestra e le gambe allo studente che dalla finestra di faccia le spiega la virtus latina.

La vita italiana di domani altro non deve essere che una serie di bombe a mano lanciate nelle gambe degli importuni pesantissimi due nemici: il prete e il carabiniere. La primavera ride e scoppia sotto le leggi, i divieti, i confessionali, i senati, vince e vincerà sempre; ma quanto sarebbero più splendidi i suoi frutti se un giorno si sentisse finalmente una voce riempire l’azzurro: il Papato è fuori, fuori d’Italia con l’ultimo dei Preti e l’ultimo dei Carabinieri!
La nostra guerra vittoriosa ha rivelato un antagonismo feroce fra i combattenti e i carabinieri. Come tra gli interventisti e i preti d’ogni specie: clericali, professori e socialisti.
Gli arditi odiano i carabinieri. Questi hanno sognato di mettere le manette agli Eroi. Secondo loro gli Eroi devono essere gente quieta, che non grida, che prevede, ha paura, va adagio, non ha gomiti nelle folle, aspetta pazientemente agli sportelli dove l’abrutitissimo impiegato di stato fa tutti i suoi comodi e distribuisce la lentezza.
Gli arditi disprezzano i reticolati e la disciplina militare, queste manette imposte dal professoralismo strategico e dalla scienza teutonica.
Improvvisano tutto e specialmente la vittoria. Sono futuristi: non si curano dei «rincalzi» romani  forniti dalla storia e non vogliono essere preceduti da bombardamenti sapienti.

Sorprendono la trincea nemica che ha la forma di un banchiere panciuto, la sfondano, la svaligiano e così, di slancio, a Trieste.
I carabinieri durante la guerra avevano il còmpito di verificare minuziosamente i passaporti per afferrare al passaggio le numerosissime spie. Ne lasciarono passare molte, impiegarono 4 anni ad imparare questo mestiere di controlli ed ora, finalmente lo sanno fare così bene che non smettono più di verificare i passaporti di noi vincitori. Preti come i preti, custodi della lentezza e della burocrazia, medioevali, perniciosissimi imprigionatori della Primavera ardita e veloce piena di fiumi rivoluzionari!

Concludendo, bisogna:
Sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso per sgombrare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra
adatta dove morire lentamente.
Il nostro anticlericalismo intransigentissimo e integrale, costituisce la base del nostro programma politico, non ammette mezzi termini nè transazioni, esige nettamente l’espulsione.
Il nostro anticlericalismo vuole liberare l’Italia dalle chiese, dai preti, dai frati, dalle monache, dalle madonne, dai ceri e dalle campane. Unica religione, l’Italia di domani. Per lei noi ci siamo battuti senza curarci delle forme di governo destinate necessariamente a seguire il medioevo teocratico e religioso nella sua fatale caduta.

 

11.
Patriottismo futurista.

 

L’idea di patria non è per noi un prolungamento ideale del sentimento della famiglia. Il sentimento della famiglia è un sentimento inferiore, quasi animale, creato dalla paura delle grandi belve libere e delle notti gonfie d’agguati e d’avventure. Nasce coi primi segni della vecchiaia che screpolano la metallica gioventù. Primi segni di quietismo, di saggia prudenza moderatrice, bisogno di riposarsi, di ammainare le vele in un porto di calma e di comodità.
La lampada familiare è una luminosa chioccia che cova delle uova putride di vigliaccheria. Padre, madre, nonna, zia e figli dopo alcune stupide schermaglie finiscono sempre per complottare insieme contro il divino pericolo e l’eroismo senza speranza. E la zuppiera fumante è l’incensiere di questo tempio della monotonia.
L’idea di patria invece è una idea assolutamente superiore. Rappresenta il massimo allargamento della generosità dell’individuo straripante in cerchio verso tutti gli esseri umani simili a lui o affini, simpatizzanti e simpatici. Rappresenta la più vasta solidarietà concreta d’interessi agricoli, fluviali, portuali, commerciali, industriali legati insieme da un’unica configurazione geografica, da una stessa miscela di climi e da una stessa colorazione di orizzonti. Rappresenta precisamente la distruzione del sentimento di famiglia egoistica, ristretta, divenuta inutile o dannosa all’individuo.

Alcuni dicono: la patria è la nostra grande famiglia. Altri possono dire che la famiglia è una piccola patria. Noi dichiariamo che il cuore dell’uomo spacca e annulla nella sua espansione circolare il piccolo cerchio soffocatore della famiglia per giungere fino agli orli estremi della Patria dove sente palpitare i suoi connazionali di frontiera come se fossero i nervi periferici del suo corpo.
L’idea di patria annulla l’idea di famiglia. È un’idea generosa, eroica, dinamica, futurista, mentre l’idea di famiglia è gretta, paurosa, statica, conservatrice, passatista. La vera concezione di patria nasce per la prima volta oggi dalla concezione futurista del Mondo. È stata prima d’ora una confusa miscela di campanilismo, di retorica greco-romana, di eloquenza commemorativa e d’istinto eroico incosciente. Hanno stupidamente poggiata questa idea sulla commemorazione degli Eroi, sulla sfiducia nei vivi, sulla paura della guerra, sulla restaurazione conservatrice di tutto ciò che era morto.
Il patriottismo futurista è invece la passione accanita, violenta e tenace per il divenire-progresso-rivoluzione della propria razza lanciata alla conquista delle mete più lontane.
Come massima potenza affettiva dell’individuo il patriottismo futurista pur essendo di essenza disinteressata, si trasforma in utilità pratica per la continuità e lo sviluppo della razza che favorisce.
Il patriotta italiano invece di lavorare per i suoi figli, lavora, si batte e muore per gli italiani di domani. Massima potenza di amore paterno: invece di 4 o 5 figli sentirne nel cuore 40 milioni. Il cerchio affettivo del mio cuore italiano tendendosi smisuratamente abbraccia la patria cioè la massima quantità manovrabile di ideali, interessi, bisogni miei, nostri, legati fra loro e non in contrasto fra di loro.
Data la conformazione della nostra divina penisola, la varietà piacevole dei suoi climi, dato il sangue straricco di qualità varie, ma unico e tipico della nostra razza, la massima quantità manovrabile d’interessi e d’ideali nostri legati fra di loro e non in contrasto include il Trentino, l’Istria, la Dalmazia, Vallona, Rodi, Smirne, Bengasi, Tripoli.
Concludendo: la patria è il massimo prolungamento dell’individuo o meglio: il più vasto individuo vivo capace di vivere lungamente, di dirigere, dominare e difendere tutte le parti del suo corpo.

 

 

12.
Pacifismo e Società delle Nazioni carabiniera.

 

La Società delle Nazioni è una vecchia idea mazziniana rinata oggi e riverniciata a nuovo. Idea passatista fondata su una spasmodica speranza di pace universale eterna che presuppone il miracoloso cambiamento in latte e miele di tutto il sangue che scorre nelle vene delle razze. Presuppone inoltre un’eguaglianza assoluta spirituale e fisica dei popoli. Fa astrazione completa dalla varietà infinita di tipi diversi di popoli che occupano ognuno un loro gradino sulle numerose scale di valori e di sviluppi, dal cannibale salendo un poco al Tuareg, salendo un poco al Prussiano, salendo un poco al Croato, salendo molto fino al Francese, all’Inglese, salendo molto fino all’Italiano.
La concezione della Società delle Nazioni rinasce oggi:

 

1) Dalla stanchezza della guerra e dalla paura di una nuova guerra.

 

2) Dalla paura di una rivoluzione.

Il corridore che buttandosi sul letto dopo una corsa frenetica, sfinito dalla stanchezza maledice la corsa è altrettanto naturale che il combattente che dopo una guerra violenta e sanguinosa maledice la guerra. Essi trasformano tutte le loro fatiche logicamente mescolate di disillusioni e di piccoli rancori in un motivo sufficiente per condannare in blocco la gioia di correre e l’entusiasmo di combattere.
La pace non può essere l’ideale assoluto di un’anima virile come il sonno non può essere l’ideale assoluto di un corpo sano.
La Società delle Nazioni è una delle tante ideologie fiorite dalla stanchezza e dall’esaurimento nervoso. La Società delle Nazioni se verrà realizzata come fu sognata, sarà o platonica, specie di nuovo tribunale dell’Aia, senza efficacia, o attiva, e diventerà in questo caso soffocatrice d’ogni
libertà e d’ogni sviluppo nazionale. In questo secondo caso avendo bisogno di sanzioni, pene e minaccie dovrà avere un esercito di terra e di mare internazionale. Questo esercito per garantire il disarmo e impedire eventuali subdoli armamenti dovrà contare per lo meno 600.000 uomini.
Avremo così il ridicolo e il pericolo e l’assurdità di una smisurata forza poliziesca al servizio di questo nuovo tribunale dell’Aia o Tempio della Pace. È cretino che per evitare la guerra si giunga così a trasformare tutti i soldati in poliziotti. Tutti temendo lo scoppio di una rissa o di una rivolta sulla gran piazza dell’Europa o sulla smisurata piazza del Mondo, ogni nazione verrà sorvegliata come una specie di dimostrante riottoso o di anarchico sospetto da acciuffare e da imprigionare al primo grido d’allarme.
Non Società delle Nazioni, ma semplicemente carabinierismo universale. L’arma dei carabinieri a custodia dei popoli grandi borghesi intimoriti.
Vinta, umiliata e diminuita la Germania, sfasciato l’Impero austroungarico, l’unica Società delle Nazioni possibili, cioè la Società delle Nazioni vittoriose, è di fatto già formata in tutto il suo massimo valore di diritto-forza contro la possibile vendetta della Forza senza diritto. Se i vinti accenneranno un movimento di rivincita, questa Società delle Nazioni vittoriose reprimerà e
sopprimerà. Nella Società delle Nazioni concepita dagli utopisti, costituita da Popoli vittoriosi, vinti, neutri, neonati sani e rachitici, vecchi e invalidi avverrà fatalmente che quello migliore fra tutti e più potente alzerà la voce.
La Società interverrà minacciando. Discussioni violente. L’esercito internazionale non interverrà subito con la forza perché sarà legge fondamentale della Società che la forza è da condannarsi sistematicamente. Si discuterà, ma pur discutendo la Nazione forte e minacciata dal carabinierismo della Società si armerà nascostamente o apertamente.
Avremo allora in presenza l’uno dell’altro due eserciti. La Società avrà una minoranza e una maggioranza, vi saranno coalizioni di tre, quattro o cinque nazioni simpatizzanti fra loro e camorre nascoste per sventarle o tradirle. Un ambizioso rappresentante di nazione rappresenterà in realtà un dato gruppo industriale a scapito e in contrasto con gli interessi della Nazione da lui rappresentati.
Vi sarà un parlamentino o un parlamentone con tutte le bassezze, i personalismi, le burocrazie cretine che caratterizzano i Parlamenti.
Lo spirito emulativo delle razze e l’impeto rivoluzionario che le agita igienicamente interverrà ad ogni modo e il solito ciclone d’eroismo e di distruzione che investe di tempo in tempo i popoli travolgerà la Società delle Nazioni.
L’aureola luminosa che orna il capo di Wilson Messia della Pace Eterna non può durare. Il glorioso rappresentante del poderoso intervento americano non detiene la formula pacificatrice della guerra. Fiducia e pretesa assurda quella di abolire per sempre la guerra; simile alla pretesa e fiducia assurda dei bolsceviki russi che credettero di trovare (dopo il fallimento di tante rivoluzioni) la formula unica definitiva della questione sociale (capitalismo, proletariato, contadini, diseredati) in un comunismo semplificatore e livellatore oggi già irto di feroci vendette e tutto ineguale come un mare in tempesta.
La Società delle Nazioni essendo nata dalla paura di una seconda guerra e ancor più dalla paura di una Rivoluzione probabile, nasconde un desiderio spasmodico di ordine carceriere, di autocrazia, di reazione moralistica e poliziesca. Questo desiderio è mascheratissimo, si comprende, poichè in contrasto assoluto con tutte le ideologie libertarie sventolate sui combattenti della Intesa per sorreggerne lo slancio eroico.

Noi futuristi che non abbiamo paura nè della Rivoluzione né della guerra, noi futuristi senza stanchezza e pronti a tutto per il Divenire anche esplosivo della nostra razza, rivolgiamo a Wilson, quale tipico rappresentante della formula Società delle Nazioni, le
seguenti domande:

1) La Società delle Nazioni sarà animata da spirito rivoluzionario o da spirito conservatore?

2) La Società delle Nazioni essendo nata dalla conflagrazione rivoluzionaria riuscirà – come speriamo – ad escludere i rappresentanti reazionari delle Nazioni?

3) La Società delle Nazioni interverrà o si disinteresserà nelle questioni interne capitali delle Nazioni rappresentate?

4) La Società delle Nazioni aiuterà ogni nazione a rinnovarsi internamente e a sgomberare i suoi decrepiti passatismi?

5) Nel caso tipico italiano la Società delle Nazioni favorirà il nostro necessario urgente svaticanamento dell’Italia o lo contrarierà?
That is the question, dear Wilson!

6) La Società delle Nazioni sarà dunque una specie di Paradiso terrestre, la mèta della umanità. Dovremo fermarci in questo paradiso?
Temo che Wilson essendo stato trascinato dalla conflagrazione futurista del mondo ad una concezione di Società futura, sia in realtà mal convertito al Futurismo e rimanga un elegante professore di diritto che ha trovato non in trincea, ma nei suoi vecchi libri, la formula pacificatrice della guerra, una specie di Dio-bonne à-tout-faire per beghina in transatlantico.
Naufragheranno insieme nell’Oceano… Pacifico!

Combattiamo la concezione della Società delle Nazioni non per imperialismo, ma per amore della Rivoluzione.
Non bisogna temere nè guerra nè rivoluzione. Ogni nazione superando il periodo naturale di stanchezza deve passare serenamente dalla guerra alla pace vigile e laboriosa, governandosi da sè e mettendosi in grado di difendersi e svilupparsi senza il carabinierismo assurdo della Lega delle
Nazioni.
Crollati gli Imperi della Germania, dell’Austria-Ungheria, della Russia, della Turchia col loro decrepito semplicismo autocratico barbarico medioevale, clericale, poliziesco, grossolano, la paura di una nuova guerra è una indegnità.
La paura è pessima consigliera. Cosicchè – dopo il crollo del Kaiser e della Germania si vuole copiare la Confederazione germanica creando una grande Confederazione pacifista della vigliaccheria e del quieto vivere. Il mondo dovrebbe diventare una smisurata Germania pacifista con una Prussia di cocciuto pacifismo alla testa, una Berlino di ostinato e retrogrado, cubico quieto-vivere[2], un’enorme burocrazia per archivizzare le diverse paure dei popoli e naturalmente un grande Kaiser di decorativo latte-miele sopra tutto.
Concezione tedesca pletorica, professorale, antiumana, strangolatrice, reazionaria, stagnante, regressiva, arteriosclerotica, passatista. Ridicolo collettivismo delle nazioni evirate con obbligatoria deposizione dei testicoli in comune. Concezione aprioristica contraria ad ogni futurismo nazionale. Ogni nazione è etnicamente e geograficamente un grande individuo, il più grande individuo capace di vivere. È inoltre il massimo prolungamento dell’individuo. È inoltre la più vasta solidarietà concreta, naturale, cosciente e sincera, il massimo aggregato di forze umane legate da interessi comuni e simpatie profonde.
È il massimo numero d’uomini che possano vivere in una solidarietà assoluta di interessi e di ideali. Bisogna dunque rispettare la sua libertà e il suo sviluppo. La possibilità di una guerra lontana è un’atmosfera sana per un popolo. L’atmosfera di una rivoluzione possibile è una atmosfera ancor più sana per un governo che non può così nè addormentarsi nè tradire.
La Società delle Nazioni è specialmente concepita come una morfina o una questura antirivoluzionaria. Noi futuristi la condanniamo recisamente perchè è la negazione di ogni interventismo (questa parola divina).

 

 

13.
Contro l’immonda anzianità, la burocrazia, per il decentramento
.

 

Esempi tipici della nostra barbara, pedantesca burocrazia: Per impiantare la luce elettrica nella stazione ferroviaria di Caltagirone occorsero 3 anni di laboriose trattative e un volume di carta scritta, e per la consegna del piazzale esterno della Stazione Ferroviaria al Comune di Caltagirone si discute da 13 anni. I fascicoli voluminosi della pratica del Comune sono già 3, fin’oggi. 20 convegni sul posto con ispettori, ingegneri e simili.
Il poeta futurista Paolo Buzzi che è anche uno dei rarissimi geniali funzionarî d’Italia, segretario alla Deputazione provinciale di Milano, interrogato da me sui recenti progetti di riforma della burocrazia, mi rispondeva con le seguenti considerazioni: Il progetto di riforma della burocrazia presentato recentemente dalla Commissione di studio presieduta dal senatore Villa al Ministero del Tesoro è, nelle sue linee generali, lodevole.
Si eleva, con esso, di colpo, il tono delle categorie così dette di concetto nelle quali il criterio d’avanzamento è fissato in base a concorsi e premi per speciali benemerenze. L’allettamento
materiale è dato dall’aumento sensibile degli stipendi, dalla garanzia della carriera a ruoli aperti e dal modernissimo criterio delle cointeressenze sugli utili dell’azienda pubblica.
Un miglior organamento delle pensioni con possibilità di realizzo di capitali dopo un certo numero d’anni di servizio, segna qualcosa di veramente umano, finalmente, in questo argomento sul quale tante chiacchiere vane vennero fatte e meglio invece sarebbe stato, pietatis et dignitatis causa, tacere in attesa d’agire.
Lo Stato traccia, così, le sue linee generali. Le Provincie ed i Comuni dovranno seguirle, ormai sicuri di non trovare inceppi negli organi tutori che, finora, siluravano i progetti organici più
audaci trincerandosi dietro la comoda ragione che non si potessero fare ai funzionari degli Enti locali trattamenti più favorevoli di quelli fatti ai funzionari dello Stato.
È tempo che queste distinzioni sorpassatissime, abbiano a cessare. Tutti i lavoratori degli uffici sono uguali di fronte alla Pubblica Cosa.

I Comuni altro non sono che deanellamenti istologici, attraverso la spina dorsale delle Provincie, dello Stato. E nei grandi Comuni e nelle grandi Provincie è risaputo che la vita amministrativa non è se non un più analitico processo della vita politica, certo ne è il lievito elementare, sempre essa si irradia attraverso organismi tecnici i quali costituiscono ormai dei veri e propri dicasteri.
La politica del lavoro, questa grande ossigenatura della vita pubblica moderna, è fatta ormai anche dagli Enti locali. Ogni Giunta municipale, ogni Deputazione Provinciale che si rispetti ha preceduto lo stesso Governo nella creazione d’un Dicastero del Lavoro.
E così la materia delicata e complessa degli Organici può ormai sottrarsi allo stitico quando non sia ostile àmbito di Presidenze retrive o di Ragionerie microcefale per essere portato nella sua degna e naturale sede, là dove si dibattono con vedute nuove i problemi della mano d’opera e dei conflitti fra capitale e lavoro, alla luce dei tempi che corrono e col concorso democraticamente pareggiato delle due parti.
Col nuovo progetto sulla burocrazia vengono moralmente assai più elevate le figure oltrechè dei Direttori generali, dei Capi Divisione e dei Segretari.
Il che, di conseguenza, importerà un congruo elevamento, nelle Amministrazioni locali, delle figure dei Segretari generali e degli altri Funzionari di Segreteria, oggi spesso ingiustamente disconosciute, messe ad un livello virtualmente inferiore a quello dei Segretari Comunali, che sono i veri maggiorenti nei piccoli Comuni, quasi ovunque sacrificati alle invadenze delle Ragionerie le quali dovranno avere, alla lor volta, garantiti i migliori sviluppi materiali e morali, ma a parte, in una carriera ben delimitata, di puro controllo cifrario, estranea ad ogni débordement di merito, ridotti alle proporzioni dei Corpi contabili nell’Esercito, dove solo prevale uno Stato Maggiore di
intellettuali che costituzionalmente si sovrappone agli stessi ufficiali delle armi dotte e delle specialità scientifiche. Che l’importanza di questi Funzionari direttivi debba essere definitivamente fissata e posta in rilievo anche dai nuovi organici degli Enti locali è intuitivo, ove si pensi che il progetto di riforma della burocrazia di Stato non toglierà di mezzo, se pure li attenuerà, i difetti ai quali si imputa ogni giorno in Italia l’arrugginimento della Macchina governativa. In Italia, dico io, e in Francia (per parlare del paese che la Vittoria ha ancor più affinizzato al nostro) se uno dei più eletti spiriti politici della latinità moderna, Paul Déchanel, ha, in un suo nuovo libretto: La Décentralisation, non da oggi invocato dal decentramento la salvezza dell’Amministrazione anche nella luminosa Repubblica, di cui probabilmente l’anno venturo sarà il Presidente. In Italia bisognerebbe essere incoscienti per non comprendere che la chiave di volta del miglior assetto pubblico (ed io aggiungo la sola piattaforma positiva sulla quale si dovrebbero impiantare le
imminenti elezioni) è il Decentramento.
Tornerò, per meglio spiegarmi, su questo tema essenziale, con la dovuta ampiezza e l’indispensabile coraggio civile.

Ma io dico fin d’ora: per ben decentrare, bisogna che si trovi già saldamente impiantato il telaio organico delle Amministrazioni centrifughe. Si potrà e si dovrà, ben inteso, fare tutta una rifusione di forze burocratiche, liberamente scambiabile, dal centro alla periferia, per tener conto di tutti i lavoratori disponibili e delle conseguenze diverse. Ma il montaggio dei pezzi dislocati non potrà essere fatto che intorno ai motori fissi di produzione etnica che già si trovano in posto. Lo Stato si scinderà in Regioni che le Provincie ricostituiranno sulla base delle loro tradizioni storiche, economiche, politiche e burocratiche. I Comuni, prendendo alla lor volta fiato, oltrechè dalle proprie tradizioni, in Italia magnifiche, dalle nuove correnti energetiche della vita nazionale, meglio producendo e meglio ricavando dall’ambito costituzionale alleggerito, dinamizzati dallo stesso isveltimento del ritmo pubblico locale, che si farà sentire attraverso la finanza, la cultura, l’igiene, la viabilità, le comunicazioni, l’assistenza e la previdenza sociale, ecc., daranno man forte alla Regione, invece di richiederne, come oggi fanno, alla Provincia. E l’atmosfera liberista e laburista, la sola unica vera nella quale oggi debbono muoversi gli organismi collettivi, si troverà saldamente piazzata dalle Alpi al Mare sopra un cumulo di forze ringiovanite, sorrette da crediti rinsanguati ed equilibratamente distribuiti, per la salvezza e la fortuna d’Italia.
Decentrati gli organismi di Stato, io vedo in gran parte tolti i mali attivi e passivi della Burocrazia. La macchina si velocizzerà perchè negli elementi dinamici sarà penetrata la passione che nasce dai più facili riconoscimenti materiali e morali. E, sopratutto, si sarà operata la selezione dei migliori: ed i mediocri saranno spazzati a colpi di frusta dal tempo, come si augura, nel suo brillante articolo (apparso sull’ultimo numero di Roma futurista) lo Zuccari.
Perchè tutti sono d’accordo che i servizi miglioreranno se saranno decentrati, non solo, ma ridotti d’organico. Date a dei giovani d’ingegno e di volontà una pattuglia pur scarna di lavoratori: e libertà d’azione e pieno senso di responsabilità. Ciò che fu fatto nelle trincee, si farà negli uffici. Allungate pure gli orari commisurandoli agli aumentati supplementi d’onorario.
Cointeressate al più intenso rendimento dell’opera: premiate il valore burocratico: assicurate ai pochi ma buoni un massimo di carriera possibile: e per i servizi in subordine, per le mansioni ausiliarie nelle quali il numero può essere indispensabile a pregiudizio, talvolta, dell’entità del compenso, anzichè reclutare dell’elemento maschile che potrebbe trovare più sano collocamento nell’industria, nel commercio o nell’agricoltura, reclutate delle donne!
Le donne hanno dato la loro parte di nobile rendimento alla causa della guerra. Non dimentichiamole! Esse, se intelligenti e colte, sono delle eccellenti collaboratrici nelle pubbliche aziende. Il loro lavoro vibra, quasi sempre, di passione ed è doppiamente redditizio di quello degli uomini. Negli archivi, dove la necessaria pazienza nel rintraccio e nel riordino delle carte è quella insita ai loro stessi domestici istinti conservatori, nelle copisterie dove le Remington hanno ereditato il ritmo delle Singer passandolo dal pedale alla tastiera, nelle spedizioni dove la celerità e l’ordine, pregi essenzialmente femminili, facilitano il movimento dei carteggi, ai telefoni, ai magazzini, ai depositi, lo so per prova diretta, ormai, che le donne sono indispensabili e garantiscono la dignità dell’Amministrazione che non ha più, mercè loro, bisogno d’assoldare dei paria sempre malcontenti e perciò, in fondo, sabotatori del buon lavoro altrui.
Con ciò credo aver toccato alcuni punti essenziali della riforma burocratica, che, ripeto, per esperienza e per convinzione, reputo estensibile, ormai, a tutte le Amministrazioni pubbliche d’Italia, statali e non statali.
Inutile un esame psicologico della questione. In fondo siamo sempre ai termini che Balzac ha immortalato nel suo saggio Les Employés, perchè gli uomini saranno sempre gli uomini e le greppie (dico io) sempre saranno le greppie.
Ma non posso in tutto dividere l’avversione dello Zuccari contro la casta.
Non è vero che la burocrazia italiana sia un branco di parassiti e di fannulloni. Vi sono dei valori realissimi di cultura, d’ingegno, d’abnegazione che rendono al Paese il 100 per 10. E non dimentichiamo che da noi, in mancanza di mecenati e di pensioni accademiche, in più d’un caso lo stipendio serve a garantire il pane al pensatore, all’artista, allo studioso che sa sdoppiarsi ed offrire una doppia energia alla Patria. Vi sono, si capisce, i rovesci di medàglia, i casi di pietà e, se non d’obbrobrio, di disperazione. Il Corbino trattò con mano felicissima, in indimenticabili puntate della Rivista Avvenimenti, il lato negativo del problema burocratico. Sono pagine, direi, antropologiche
d’una sincerità e d’una evidenza suprema.
Ma io, che da più di vent’anni vivo fra gli Impiegati e li studio con occhi miei, credo che da una classe, per senso abnegativo del dovere e per intenso amor di patria non inferiore a nessuna altra, l’Italia, da matrigna divenendo finalmente madre, molto potrà attendersi alla vigilia del suo rinnovamento ideale e sociale.

Rispondo a Paolo Buzzi:

1) Trovo lodevole la garanzia delle carriere a ruoli aperti. Trovo lodevole l’elevare il tòno delle categorie così dette di concetto col criterio d’avanzamento fissato in base a concorsi e a premî per speciali benemerenze. Ma dichiaro che disgraziatamente si procederà con timidezza mentre il criterio d’avanzamento e premî per speciali benemerenze dovrebbe essere dominatore e applicato sistematicamente.

2) L’aumento degli stipendi deve essere sensibilissimo e parallelo alla diminuzione degli impiegati.

3) Il criterio delle cointeressenze sugli utili dell’azienda pubblica deve essere generale.

4) Bisogna procedere immediatamente al decentramento amministrativo. Decentramento regionale di tutte le attribuzioni amministrative e relativi controlli.
Bisogna sviluppare le autonomie regionali e comunali; fare di ogni amministrazione uno strumento agile e pratico, diminuire di due terzi gli impiegati, raddoppiando gli stipendi dei Capiservizio
e rendendo difficili ma non teorici i concorsi. Dare ai Capi-servizio la responsabilità diretta e il conseguente obbligo di alleggerire e semplificare tutto.

Tutto ciò non basta, bisogna per raggiungere ad un’agile amministrazione decentrata poco costosa, semplificatrice e pratica, abolire l’immonda anzianità in tutte le amministrazioni. Nella carriera diplomatica e in tutti i rami della vita nazionale.

Bisogna premiare direttamente l’ingegno pratico e semplificatore dei buoni impiegati e giungere così ad una organizzazione semplificata a tipo industriale.
Questo non potrà avvenire fintanto che trionferà l’assurdo prestigio dei diplomi accademici e fintanto che l’iniziativa commerciale e industriale procederà lentamente senza un assiduo incoraggiamento di premî allettatori e sostentatori.

Non condivido il pessimismo di Paolo Buzzi sull’ingombro burocratico che egli crede insanabile. È questione di coraggio nell’operazione chirurgica che dovrà essere violenta, profonda, e
senza pietà partendo da questi due principî:

1) Decentramento.

2) Abolizione della anzianità.

Non condivido l’ottimismo di Paolo Buzzi sulla classe degli impiegati. Vi sono eccezioni ma naufragano nell’oceano dei parassiti e dei fannulloni.
Parassiti e fannulloni plasmati tali dall’atmosfera tediosa, pedante, scettica, irresponsabile, senza luce, senza ambizione, quietista, vile taccagna, abbrutente degli attuali ambienti burocratici.
Volete diventare rivoluzionarî? Volete sentirvi nelle mani un desiderio pazzo di lanciar bombe, bruciare, massacrare, radere al suolo?
Volete, malgrado il vostro temperamento placido e sedentario, diventare il più violento e sanguinario anarchico?

Passate mezz’ora in un ufficio governativo!
Non è ammissibile che la nostra meravigliosa guerra rivoluzionaria, vittoriosa, dopo averci liberati dall’Impero austroungarico, feroce burocrazia esterna, non ci liberi dall’assurda elefantiasi burocratica interna.
Non ho che un sol timore quando penso alla rivoluzione:

Quello che anche violentissima, totale e ben diretta lasci sussistere in Italia la forse immortale Burocrazia.
Tutti gli Italiani intelligenti pensano come me. Vi sono dovunque nel mondo – oggi – dei tentativi riuscitissimi per creare nuovi organismi su basi antiburocratiche. La conflagrazione portando un uomo giovane e di grande ingegno come il generale Badoglio dal grado di tenente colonnello, al grado di sottocapo di Stato Maggiore di un esercito di 5 milioni di uomini, ha dato una mazzata energica al principio di anzianità. Più volte abbiamo glorificato questo carattere assolutamente futurista della conflagrazione.

Nello sviluppo meraviglioso dell’aviazione inglese dominarono fortunatamente due principî futuristi:

1) Si diedero i gradi di merito e venne abolita l’anzianità.

2) Trionfò sistematicamente il principio di preferire il più giovane. La gioventù non fu un argomento per impedire che un aviatore abile, intelligente, esperto, avesse il grado meritato. Vi furono molti assi gloriosi per aver precipitato numerose vittime nemiche che rimasero a lungo sottotenenti poichè il coraggio, l’abilità di volo e d’attacco non bastavano. Si dava, secondo la concezione veramente futurista molta importanza all’abilità organizzatrice.
Predominava non soltanto il principio del merito fuori d’ogni anzianità, del più giovane, ma specialmente del migliore organizzatore. Ed era logico poichè si trattava di creare dal nulla una grande organizzazione.Fu così possibile creare più di 40.000 piloti inglesi e di mettere a disposizione della linea francese 2500 aeroplani pronti a volare.

Queste constatazioni non devono però ispirarci un eccessivo pessimismo sullo sforzo aviatorio italiano, veramente glorioso. È indiscutibile che il merito dell’Inghilterra in questo sforzo trionfale è diminuito dallo spreco enorme di denaro. Un aviatore inglese mi diceva: «il denaro ha salvato l’Inghilterra. Lo sforzo aviatorio italiano è infinitamente più grande del nostro perchè
fatto con denaro limitato».
Questo aviatore inglese aggiungeva che in Scozia il governo inglese spese 500.000 sterline per fondare una scuola d’aviazione per assi e il denaro fu tutto perduto perchè la località prescelta ventosissima e burrascosa, non permetteva di volare che 4 mesi all’anno.
Il futurista Volt risponde con acume alle obbiezioni correnti dei difensori della anzianità:
/# Se tutti i vecchi fossero della tempra del vecchio Clemenceau, io non esiterei a schierarmi fra i paladini della più ferrea gerontocrazia. Disgraziatamente o fortunatamente non è così.
È noto che fra i trenta e i quarant’anni la maggior parte degli uomini normali subiscono quella specie di involuzione spirituale che viene eufemisticamente chiamata «metter giudizio». Se si tratta di un artista, l’individuo prende moglie e per dar da mangiare ai marmocchi si mette a far dell’arte commerciale. Se è un uomo politico, mette accuratamente da parte ogni opinione meno che ortodossa per irreggimentarsi nella incolore maggioranza politica del momento. Ai difetti della età giovanile succedono, a unanime compiacimento di amici e congiunti, le qualità dell’uomo serio e maturo: la prudenza (leggi: paura cronica), la ponderazione (cioè indecisione, mancanza di
iniziativa e lentezza) e la gravità (adorazione del mezzo termine e orrore di ogni specie di innovamento).
E siccome gli uomini di governo vengono esclusivamente reclutati fra questi uomini serii e ben stagionati, ne segue che le suddette qualità senili danno la loro impronta a tutto l’indirizzo della politica estera e interna di una nazione. La politica estera sarà quindi prudente e cioè pronta alle
peggiori rinunzie (vedi «politica delle mani nette», «piede di casa», «neutralismo») e ponderata, cioè lascierà sfuggire le migliori occasioni per affermare la potenza politica della nazione (Cairoli, ecc., ecc.). La politica interna poi sarà grave e seria, cioè basata sul compromesso ed essenzialmente conservatrice, benché larvata di formule avveniristiche (giolittismo, Depretis e C.).
Tale infatti è la storia politica del Regno d’Italia da Custoza all’impresa di Tripoli. La guerra attuale capovolse codesto sistema di cose. Le qualità eminentemente giovanili e interventiste del coraggio, della iniziativa e dell’agilità spirituale sopraffanno impetuosamente la mentalità tarda e neutrale della vecchia Italia.
Coronamento pratico e giuridico di questa rivoluzione spirituale del popolo italiano non potrà essere altro che l’abolizione del criterio di anzianità in tutte le carriere governative e nel libero apprezzamento del pubblico.

 

 

14.
Il proletariato dei geniali.

 

È indiscutibile che la nostra razza supera tutte le razze per il numero stragrande di geniali che produce.
Nel più piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio vi sono sempre sette, otto giovani ventenni che fremono d’ansia creatrice, pieni d’un orgoglio ambizioso che si manifesta in volumi inediti di versi e in scoppi di eloquenza sulle piazze nei comizi politici.
Alcuni sono dei veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al vero ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fondo geniale, cioè suscettibili di sviluppo e utilizzabili per accrescere l’intellettualità geniale di un paese.
In quello stesso nucleo o piccolo villaggio italiano è facile trovare sette, otto uomini maturi che nella loro piccola vita d’impiegato, di professionista nei caffè del loro quartiere e in famiglia portano sul capo l’aureola malinconica del geniale fallito. Sono dei rottami di genialità che non hanno mai avuto un’atmosfera favorevole e furono perciò subito stroncati dalle necessità economiche e sentimentali.

Il movimento artistico futurista da noi iniziato 11 anni fa aveva precisamente per scopo di svecchiare brutalmente l’ambiente artistico-letterario, esautorarne e distruggere la gerontocrazia, svalutare i critici e i professori pedanti, incoraggiare tutti gli slanci temerarî dell’ingegno giovanile per preparare un’atmosfera veramente ossigenata di salute, incoraggiamento e aiuto a tutti i
giovani geniali d’Italia.
Sono certamente due o trecentomila in Italia. Incoraggiarli tutti, centuplicarne l’orgoglio, aprire davanti a loro tutti i varchi, diminuire al più presto, così, il numero dei geniali italiani falliti e stroncati.
Ho spiegato in molte opere precedenti come i 3/4 dei vizi mentali, delle debolezze, degli errori, delle viltà e delle lentezze che si opponevano al celere progresso dell’Italia derivavano da ciò che noi chiamiamo il Passatismo. Culto ossessionante del passato e delle glorie antiche, misoneismo cocciuto, valutazione pessimista delle forze della nostra razza, accademismo scolastico, purismo letterario, culto del plagio, copia dell’antico, adorazione del museo, esaltazione dello sgobbone, ecc.
Il Passatismo fu per molto tempo la essenza unica del sistema d’insegnamento e dell’educazione familiare. Era favorito da molte ideologie assurde più o meno importate e tipicamente antitaliane.
Regnava uno schifoso intellettualismo socialistoide, antipatriottico, internazionalista, il quale separava il corpo dallo spirito, vagheggiava una stupida ipertrofia cerebrale, insegnava il
perdono delle offese, annunziava la pace universale e la scomparsa della guerra, i cui orrori sarebbero sostituiti da battaglie d’idee. Intellettualismo di origine germanica, ossessione
del libro, bibliofilia, pedantedescheria. Disprezzo per la ginnastica, abbrutimento dei ragazzi nelle aule puzzolenti e chiuse, svalutazione completa della salute e della forza
muscolare.
Vegetava in quest’aria di muffa una gioventù stremenzita, senza freschezza primaverile e senza virilità.
Quanti giovani abbiamo visto uscire dalle scuole, malinconici, curvi, deboli, avari di voce e di gesti, pallidi, avvizziti, con occhiali doppi e infinite miopie stringendo sotto il braccio con una specie di orgoglio spaventoso e miserando «I Promessi Sposi», come Don Rodrigo stringeva il suo foruncolo di peste bubbonica.
La loro peste bubbonica era il culturalismo teutonico. Si andava predicando che i giovani italiani erano ignoranti e che il loro ingegno aveva bisogno di una cultura solida, seria, metodica. In realtà si predicava l’odio all’ingegno. Leggete, studiate, ponderate, chiudetevi nelle biblioteche, compulsate i codici, studiate gli antichi! Vivete nei musei! Copiate quadri e statue! Bisogna imparare a scrivere, a dipingere, a scolpire copiando le opere dei grandi! La lingue italiana è difficilissima, occorre decidere dopo serie meditazioni quali siano i maestri da preferire e i dizionarî da consultare. Il Bartoli, il Boccaccio, Machiavelli, Tommaseo, Rigutini, Fanfani…. Occorre postillarli.
Il tale ha ingegno. Ma usa francesismi. «Questa dei francesismi è peste varia…».
In questa rete di divieti, di difficoltà inesistenti e di false divinità da rispettare, da evitare, da non offendere il giovane geniale smarrisce il suo vero istinto propulsore e deprime il suo coraggio orgoglioso. Tutte le sue forze rimangono contratte allo stato di angoscia dolorosa davanti alla strada lunghissima, senza conforto né aiuto.
Sotto il nuvolone minaccioso degli esami inutili da passare o la pioggia torrenziale dei compiti cretini, lo studente educa il suo cervello e il suo spirito alla paura e al pedantismo. Egli trova ogni sera in famiglia la tipica atmosfera di grettezza, di mediocrità, l’odio per tutte le forme di avventura e di audacia, i moralismi pretini, la goffa lotta fra l’avarizia taccagna e l’ansia del lusso provinciale, l’affettuosità morbosa accaparrante e soffocante della madre e la dura prepotenza di un padre rammollito che crede però suo dovere stroncare il figlio ad ogni costo in tutto ciò che può sognare, desiderare, volere. Questo giovane geniale si sente nei nervi una forza misteriosa, violenta. Sarà poeta, pittore, artista drammatico, costruttore di ponti su fiumi americani, appaltatore di terreni lontani da dissodare, deputato, ecc.: egli non sa esattamente. Rischierebbe volentieri tutto ciò che ha di caro e di piacevole intorno a sè, affetti, amicizie, primi piaceri sessuali, allegrie goliardiche, per ottenere immediatamente la prova diretta e la manifestazione di questa sua forza.
Egli ha invece intorno a sè degli alti pessimismi neri, delle negazioni massiccie; respira lo scetticismo avvelenante e non ha un soldo in tasca.
Se coraggiosissimo, rivoltosissimo, egli riesce a spaccare e rovesciare tutti i divieti, la miseria assoluta, ultimo laccio invincibile, lo trattiene e lo inchioda nell’assoluta impossibilità di
staccarsi e di osare.
Questi fallimenti di gioventù geniali sono numerosissimi e tipici in certe provincie d’Italia come la Toscana, che pur essendo indiscutibilmente le più intelligenti sono purtroppo le meno fattive e le meno utili nello sviluppo nazionale. Firenze è piena di giovani d’ingegno inoperosi e smarriti che sciorinano sotto i soli elettrici dei caffè dei meravigliosi tessuti di pensiero e di lirismo senza speranza di essere mai valutati, considerati, utilizzati.
Scrivere? A che pro? Dov’è l’editore? Certo non pagherà, anzi vorrà essere pagato. Nei giornali? Il direttore è stato prescelto fra i quattro o cinque autentici cretini della città. Ostruzionismo, dunque meglio abbandonare spiralicamente il proprio canto malinconico nell’antico chiaro di luna che ripatina Lungarno e il Ponte Vecchio o godersi una «bambina» alle Cascine che offre camere ammobiliate a buon mercato assoluto.
Ho conosciuto innumerevoli giovani geniali a Firenze, in Toscana, a Napoli e in Sicilia. Quasi tutti esasperati; il cuore già chiuso da un sordo rancore contro la società, molti avvelenati da una precocissima invidia che sporca la fonte chiara della ispirazione genuina e dell’entusiasmo giocondo, creatore. È talvolta difficilissimo conoscerli, apprezzarli, incoraggiarli. Poichè invece di abbracciare spiritualmente l’Italia come una vasta massa malleabile da plasmare essi la considerano come un reticolato idiota di soprusi, di camorre, di autorità scroccate, di divieti imbecilli. Ed hanno ragione. Dovunque, l’ingegno è svalutato, deriso, imprigionato. Incoronato soltanto e festeggiato il mediocre opportunista o l’ex-genio ormai rammollito.
Il Futurismo scoprì, svegliò, rianimò, radunò molti di questi giovani geniali, i migliori, senza dubbio. Ma non tutti certamente. Nella vasta rivoluzione di serate burrascose che si propagò su
tutta la Penisola, il Futurismo entrò in contatto con quasi tutti ma occorre un più sistematico intervento delle forze del paese per salvare, riaccendere e utilizzare tutto il vasto proletariato dei
geniali.
Propongo che in ogni città sia costruito uno o più Palazzi che avranno una denominazione sul genere di questa: «Mostra libera dell’Ingegno creatore».

1° Verrà esposta per un mese un’opera di pittura, scultura, plastica in genere, disegni d’architettura, disegni di macchine, progetti d’invenzione.

2° Verrà eseguita un’opera musicale piccola o grande, orchestrale o pianistica di qualsiasi genere.

3° Verranno letti, esposti, declamati poemi, prose, scritti di scienza di qualsiasi genere, di qualsiasi forma e di tutte le dimensioni.

4° Tutti i cittadini avranno il diritto di esporre gratuitamente.

5° Le opere di qualsiasi genere o valore apparente, anche se apparentemente giudicate assurde, cretine, pazze o immorali, saranno accettate, esposte o lette senza giuria.

 

 

15.
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un
Eccitatorio.

 

I problemi che si affollano dopo-guerra in un paese non ricco come il nostro superano, credo, la potenza governativa di qualsiasi regime e sono destinati quindi ad avere un’unica soluzione rivoluzionaria.
È indiscutibile però che il governo parlamentare col suo smisurato pantano burocratico è – fra tutti i governi possibili – il meno atto a risolverli.
Esaminiamo la situazione dal punto di vista dei produttori.

Il governo ha stanziato 3 miliardi di lavori ma nessuno cura e sollecita questi lavori. Per esempio: lavori ferroviari che devono provvedere alla disoccupazione ed evitare la crisi gravissima dei
trasporti.
Il governo dice: Bisogna produrre! produrre! produrre! Come si può produrre se tutte le industrie sono oggi creditrici dello Stato? E con quali materie prime? (se non sono già assicurate). A quali prezzi verranno date queste materie prime?
Lo stato si è dimostrato mediocre acquirente e mediocre distributore.
Il governo dovrebbe invece concedere massima libertà alle industrie togliendo impacci e pastoie. Si sostituisca alla funzione dello Stato la funzione dei Sindacati o Consorzi industriali i quali sotto il controllo dello stato provvedano all’approvvigionamento delle materie prime. Si esca da questo stato di cose che toglie ogni attività personale e si distruggano i sistemi fiscali veramente passatisti.
Ammetto che si debba provvedere alle esigenze finanziarie e che le entrate erariali siano portate ad un punto tale da fare tutto il servizio dei nostri debiti. Ma non ostacoliamo la produzione
della ricchezza.
Accettiamo nuovi oneri ma si faciliti la produzione della ricchezza e la si colpisca soltanto quando è prodotta.
I monopolî colpendo le materie prime rincarano i prodotti all’interno e rendono difficilissima la importazione che è necessaria per la ricostituzione economica del paese.
I divieti di esportazione sono assurdi. Si dice che non si può concedere la esportazione perchè i prezzi all’interno già troppo elevati aumenterebbero ancora mentre negando la esportazione tali prezzi dovranno diminuire perchè le materie prime imboscate finiranno per venire sul mercato.
Errore questo. Un simile provvedimento che dovrebbe colpire soltanto gli incettatori colpisce invece la produzione che finirà per arrestarsi.
Perderemo così i mercati esteri.

Un governo intelligente dovrebbe invece concedere entro limiti razionali l’esportazione con limitazioni di prezzi all’interno. Così l’industria riattivata potrebbe assumere gran parte delle
maestranze dimesse ora dalle industrie belliche. Ma il governo parlamentare è un governo tipicamente inintelligente.
Esaminiamo ora la situazione dal punto di vista della marina mercantile.
La guerra ha creato l’avvento delle Cooperative di gente di mare alla proprietà e all’esercizio della nave. Questo avvento importantissimo deve essere assolutamente favorito dalla legislazione italiana. Se sarà favorito senza diffidenza costituirà una delle migliori forme di pacificazione sociale.

Gli articoli 9 e 10 del decreto Villa vanno radicalmente mutati. Perchè l’articolo 10 impedisce che lo stato diventi proprietario di navi da dare a gestire alle Cooperative di gente di mare.
I noli pagati dal principio della guerra a navi estere sommano a più di 9 miliardi di lire. I noli pagati dal principio di guerra a navi italiane sommano a un miliardo e mezzo.
Bisognava per evitare questa fuga di denaro all’estero comperare subito a buon prezzo navi da trasporto. Questo era possibile anche nel 1915 e nel 1916. Quando ci siamo accorti che era un dovere comperare oro per salvare tanto oro regalato ad armatori esteri, il prezzo delle navi era altissimo, fantastico.
Il paese intuì il pericolo e pensò di riparare il danno. Sorsero nuovi cantieri, vecchi cantieri si ampliarono e centinaia di migliaia di tonnellate di ottimi vapori scesero in mare.
Disgraziatamente il decreto Villa troncò questa magnifica evoluzione e si tornò così alla dispersione di ricchezza ed ai noli esteri.
Per costruire rapidamente navi di trasporto bisognava ricorrere ad industrie particolari. La industria privata che non si occupava di navi sapeva però costruire pezzi indispensabili per le navi.
Lavoro quasi identico. Per esempio: Un fabbricante di caldaie fisse poteva fabbricare anche caldaie marittime. Così si fece. Migliaia di industrie particolari arruolate subito con rapidità
futurista collaborarono alla costruzione delle navi. Tutto ciò però senza che il governo favorisse in nulla la meravigliosa opera.
La costruzione in serie poco costosa e rapidissima doveva essere ampiamente sostenuta e propugnata dal governo. I «fabricated ships» hanno un minimo di curve. Ogni pezzo ha un numero, il montatore ricevendo i singoli pezzi guarda il disegno e segue il suo tracciato. Semplicità estrema.
Questo metodo è indubbiamente un metodo di guerra poiché esclude un poco il progresso costruttivo. Tutte le navi essendo così identiche e non una è migliore delle altre. Si può però
facilmente evitare questo danno. Resta indiscutibile che la costruzione in serie va propugnata e sostenuta dal governo, con senso pratico e fuori d’ogni burocrazia.
Ma il governo parlamentare è un governo tipicamente antipratico.
Noi futuristi consideriamo lo stato come una realtà umana. Lo stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione. Il patriottismo è per noi semplicemente la sublimazione di quell’attaccamento rispettoso che le buone e forti aziende ispirano ai loro partecipanti.
Nel Manifesto del Partito Politico Futurista io dichiaravo:
«Trasformazione del Parlamento mediante un’equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti al Governo del Paese. Il limite minimo di età per la deputazione sarà ridotto a 22 anni. Un minimo di deputati avvocati (sempre opportunisti) e un minimo di deputati professori (sempre retrogradi). Un parlamento sgombro di rammolliti e di canaglie. Abolizione del senato. Se questo parlamento razionale e pratico non dà buoni risultati, lo aboliremo per giungere ad un Governo tecnico senza parlamento, un Governo composto di 20 tecnici eletti mediante suffragio universale. Rimpiazzeremo il senato con una Assemblea di controllo composta di 20 giovani non ancora trentenni, eletti mediante suffragio universale. Invece di un parlamento di oratori incompetenti e di dotti invalidi, moderato da un senato di moribondi, avremo un governo di 20 tecnici eccitato da una assemblea di giovani non ancora trentenni. Partecipazione eguale di tutti i cittadini italiani al governo. Suffragio universale eguale e diretto a tutti i cittadini, uomini e donne. Scrutinio di lista a larga base. Rappresentanza proporzionale».
Il futurista Volt entrò subito nelle difficoltà di realizzazione del governo tecnico con il seguente articolo importante che io cito integralmente:
«Aboliamo pure il parlamento – si domandano molti – ma cosa metteremo al suo posto? La risposta è pronta. Sostituiremo il parlamento con le rappresentanze dei sindacati agricoli, industriali ed operai.

La rappresentanza sindacale sarà la base dello «Stato tecnico» futurista. Al «collegio» elettorale, circoscrizione fittizia ed arbitraria, entità che sembra creata apposta per l’esercizio del broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze economiche che dànno effettivamente forma alla società.
Al posto dell’«onorevole» deputato, demagogo costretto all’accattonaggio sistematico del voto o feudatario di una nuova feudalità peggiore dell’antica, manderemo a governare il paese ingegneri, commercianti ed operai, gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni reali della propria classe. Invece di un’Assemblea di intriganti, di chiacchieroni e di incompetenti, avremo un corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con conoscenza di causa, la grande azienda dello stato.
In pratica, l’idea della rappresentanza sindacale si trova di fronte a difficoltà serie ma non insormontabili.
Vari problemi ci si presentano.

1° A quali sindacati concederà lo Stato la personalità politica? Si tratterà di determinare le categorie di produttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo legislativo.

2° L’iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per tutti i cittadini? A me sembra che sia più logico lasciare che esercitino i diritti politici coloro che hanno volontà e coscienza.
Coloro che resteranno volontariamente fuori dei sindacati corrisponderanno in parte alle masse degli astenuti nelle odierne elezioni a suffragio universale.

3° In base a quale criterio si misurerà il numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? È la questione più scottante. Il criterio più semplice è quello numerico. Ma così si ricade nell’atonismo individualistico del suffragio universale. Io credo che non si debba tener conto del numero degli iscritti al sindacato, ma dell’importanza della funzione economica che esso esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali metallurgici avrà una rappresentanza eguale a quella di un sindacato di lavoratori del ferro benchè questi ultimi siano molto più numerosi. E ciò perchè l’importanza delle due funzioni si controbilancerà nella economia nazionale.
L’amico Settimelli dirà che questo è un criterio poco democratico. Me ne infischio.

4° Quali saranno i limiti posti all’esercizio del potere dell’Assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale? La competenza dell’Assemblea dovrà essere limitata alle questioni
prevalentemente economiche, che sono del resto le più importanti in politica.
Le questioni di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno essere risolte in parte mediante referendum popolare diretto ed in parte attribuite alla competenza del potere esecutivo.
Non ho fatto che accennare le principali questioni. Invito tutti i giovani futuristi ad inviarmi le loro soluzioni ai quattro problemi che ho posto, senza avere la pretesa di risolverli definitivamente.
Ma mi sembra che la questione sia matura per lo studio. E per noi futuristi «studio» deve significare già un principio di esecuzione. È l’ora di finirla col parlamento. Abbiamo fatto la guerra senza bisogno del parlamento. Senza il parlamento sapremo fare la pace. È ora di sbarazzare l’Italia dalle 508 incompetenze che spadroneggiano a Montecitorio. La sola esistenza di un «senato» è la vivente antitesi di tutti i principî del Partito Futurista. L’istituzione del senato parte dal concetto che le assemblee elettive abbiano bisogno di essere «frenate» in un modo qualsiasi. La esperienza invece ci dimostra che le assemblee politiche non sono quelle indomite cavalle che la retorica dei nostri padri amava imaginarsi. Fanno un po’ di chiasso, si abbandonano ai «tumulti», tanto per dar da strillare agli strilloni dei giornali quotidiani, ma poi, quando si tratta di far sul serio, finiscono sistematicamente per addormentarsi.
La «rappresentanza sindacale» non sfugge a questo grave inconveniente. L’elemento tecnico è di per se stesso conservatore. I tecnici si abbandonano volentieri alla «routine». Le più grandi invenzioni e scoperte furono aspramente osteggiate dai tecnici. Le inglesi «trade unions» sono in fondo piuttosto conservatrici e attaccate alla tradizione. Le «corporazioni» medievali si
irrigidirono fino a cristallizzare tutta la vita economica dell’Europa.
Tuttavia il solo vantaggio che il paese sia governato da gente «che sa il fatto suo» mi sembra tale da indurmi a non rinunziare al sistema della rappresentanza sindacale. Solamente che la rappresentanza sindacale ha bisogno di essere integrata da un altro organo politico, che la stimoli e le impedisca di essere un ostacolo sulla via del progresso nazionale.
E qui cade in acconcio la istituzione dell’«organo eccitatore» che Marinetti propone di sostituire alla decrepita e ingombrante istituzione del senato.
Chiameremo quest’organo «Consiglio dei giovani» o «Eccitatorio». Perchè possa compiere adeguatamente la sua funzione, occorre che esso abbia i seguenti caratteri:
a) deve essere composto di cittadini dell’età non superiore ai 30 anni; b) deve essere reclutato da persone di tutte le categorie sociali, senza distinzione di classi, per mezzo del suffragio universale diretto; c) deve essere continuamente rinnovato. Le elezioni saranno annuali; d) deve constare di un numero ristrettissimo di eletti. Nove giovani basteranno. Di competenza del «Consiglio dei giovani» o «Eccitatorio» saranno tutte le questioni non prevalentemente economiche. Ma perchè possa agire in senso progressista sulla rappresentanza sindacale, esso potrà prendere iniziativa di progetti di legge anche in materia economica, i quali però dovranno essere discussi e votati in via definitiva dalla assemblea dei rappresentanti sindacali. Viceversa quest’ultima assemblea potrà porre il suo «veto» alle deliberazioni del «Consiglio dei giovani» quando esse apportino conseguenze relative alla vita economica del paese.
È chiaro che dei conflitti possono per tal guisa sorgere fra il «Consiglio dei giovani» e la rappresentanza sindacale. Questi conflitti dovranno risolversi in ultima istanza per mezzo del

referendum popolare diretto. Tali, nelle loro grandi linee, sono le basi dello «stato futurista».
L’Eccitatorio o Consiglio di giovani eccitatori è secondo noi indispensabile.
Gli anarchici si accontentano di assalire i rami politici, giuridici ed economici dell’albero sociale mentre noi vogliamo assai più.
Di quest’albero infatti vogliamo strappare e abbruciare le più profonde radici, quelle piantate nel cervello dell’uomo e che si chiamano: desiderio del minimo sforzo, quietismo vile, amore dell’antico e del vecchio, di ciò che è corrotto e ammalato, orrore del nuovo, disprezzo della gioventù, venerazione del tempo, degli anni accumulati, dei morti, dei moribondi, bisogno istintivo di ordine chiuso, di leggi, di catene, di ostacoli, di questure, di morale, di pudore, paura di una libertà totale.
Avete visto un’assemblea di giovani rivoluzionarî anarchici? Non vi può essere spettacolo più scoraggiante. Vi noterete infatti la mania urgente, in tutte quelle anime impetuose e rosse, di privarsi subito della loro indipendenza e della loro iniziativa per dare il governo della loro assemblea al più attempato fra loro. Ossia al più opportunista, al più prudente, insomma a colui che avendo già acquistato una piccola potenza e una piccola autorità sarà fatalmente interessato a conservare lo stato delle cose, a calmare la violenza contrariando ogni istinto di avventura, di rischio, e di eroismo.

Questo nuovo presidente pur guidando con una apparente equità la discussione generale, la condurrà docile, all’abbeveratoio del proprio interesse personale.
Credete ancora all’utilità delle assemblee, spiriti rivoluzionarî? Accontentatevi in tal caso di scegliere un direttore o meglio un regolatore di discussione ed eleggete a questo ufficio il più giovane di voi, il meno noto, il meno importante e fate che la sua funzione sia limitata a quella di distribuire la parola con un’assoluta eguaglianza di tempo, controllata con l’orologio alla
mano.

 

 

16.
Contro il diritto di successione.

 

La legislazione democratica nello stringere e diminuire continuamente i diritti di successione è stata sempre frenata da questa obbiezione: Se voi vietate al padre di accumulare il denaro per il figlio togliete il principale incitamento al suo sforzo di lavoro.
Il ragionamento non regge. È basato su una assurda morale altruistica e cristiana che abolendo la gioia di vivere e il culto della propria vita proietta tutte le energie in un’altra vita e in un altro essere. Il padre nella attuale concezione moralistica della famiglia passatista abolisce rapidamente il suo programma personale di godimento fisico e intellettuale e considera la sua vita come una serie di sforzi accaniti per conquistare una somma di denaro che annulli ogni necessità di sforzo e di lotta per suo figlio. Ogni giorno segna una rinuncia. Il suo lavoro invece di trasformarsi in quella sana allegria fisica e spirituale che raddoppierebbe la sua potenza nervosa e creatrice è un lavoro tetro nel buio di una piccola idea cocciuta e vile: mio figlio non lavorerà.
Ora io domando perchè mai questo figlio non deve lavorare?
Perchè mai deve essere privato della ragione essenziale del suo organismo vitale: lottare, vincere, superare, produrre?
Ogni uomo deve partire nella vita coi soli privilegi della sua forza naturale, perchè possa manifestarsi pienamente dando il suo massimo rendimento con un massimo di sforzi e godendo
integralmente i frutti personalmente conquistati. Piena responsabilità nella vita, coscienza lucida di tutti gli ostacoli, eroismo continuo e continuo adeguato godimento della vita senza rinuncie e senza altruismi bestiali.
Vi sono dei padri che avendo lavorato tutta la vita accumulando denaro per i figli, pretendono che i figli facciano lo stesso, accumulando essi pure in un’ossessione di montagne d’oro che tutti devono aumentare e nessuno godere. Qui la condizione passatista diventa di un ineffabile misticismo cretino.

 

 

17.
Sintesi della concezione marxista.

 

1) La teoria del valore.
Secondo Carlo Marx la funzione del capitale è sterile nel processo della produzione. Solo è feconda l’opera del lavoro. Il maggior valore del prodotto è dunque il risultato esclusivo del lavoro e a questo deve appartenere. Invece iniquamente va ai capitalisti sotto forma di profitti. Il profitto è il plus-valore non pagato dagli imprenditori. La società si divide dunque in sfruttatori e sfruttati. Lo sfruttamento divenendo sempre più intenso per le esigenze della produzione, cresce la classe degli
sfruttati, diminuisce quella degli sfruttatori.
Conseguente proletarizzazione crescente della società. Quando il capitale sarà concentrato in poche mani sarà facile alla massa degli sfruttati incoscienti espropriare i pochi capitalisti e riorganizzare il sistema di produzione in modo da attribuire tutto il reddito sociale ai lavoratori.
Ora la premessa che la funzione del capitale è sterile nel processo della produzione è falsa.
Se la funzione produttrice del capitale fosse sterile, le industrie in cui il capitale-salario (lavoro) prevale sul capitale fisso dovrebbero dare redditi maggiori che quelle industrie in cui prevale il capitale fisso sul capitale-salario (lavoro).
Ma ciò non si osserva nella realtà!

 

2) La teoria del determinismo economico o materialismo storico di Carlo Marx, il quale attribuisce un valore causale al fattore economico, è quasi fallito. La scienza e il pensiero umano hanno dimostrato l’impossibilità di stabilire un rapporto di causalità tra i fattori che sono numerosissimi, di svariata potenza, tutti vivi, dinamici, e senza logica. Vi è un rapporto di interdipendenza elastica e non di causalità tra i fattori numerosi del complesso fenomeno sociale. Non dimentichiamo poi la importanza enorme dei fattori morali che sono particolarmente esplosivi e determinanti.

3) La teoria dell’unione dei lavoratori d’ogni paese. – La conflagrazione mondiale ha dimostrato violentemente l’assurdità di questa concezione unitaria fra lavoratori diversissimi, spesso
opposti e nemici per interessi, per grado di benessere e per condizioni di lavoro diverse.

 

 

18.
L’Azionariato sociale.

 

I salarî sono fissati ad una certa altezza che dipende dalla domanda di lavoro e dalla produttività del lavoro.
Il capitale riceve un compenso che è e tende ad essere uguale al saggio dell’interesse corrente più una certa quota di rischio variabile. Se – per esempio – c’è un impiego sicuro (come la rendita in tempi normali) al 5% nessuno vorrà impiegare il suo risparmio in una impresa industriale che non renda per lo meno il 5% più una quota per il rischio.
Così, se in una industria si ricava il 7,50% e nondimeno un’azione di 100 lire di questa industria vale sul mercato 100 lire e non di più, noi diciamo che la capitalizzazione è al 7,50% perchè la conoscenza della industria porta a valutare a 2,50% i rischi che comporta.
La ditta Pirelli, per esempio, avendo accumulato in un triennio una riserva di 6 milioni (dopo aver distribuito l’utile normale agli azionisti) divide la riserva in 3 milioni agli azionisti (come aumento gratuito di capitale) e 3 milioni al personale.
Ecco una dimostrazione pratica che non ci può essere vera partecipazione operaia ai profitti delle industrie senza intaccare la quota di rischio che forzatamente deve sostenere, incoraggiare, difendere gli azionisti e la industria stessa. Infatti Pirelli non la chiama partecipazione agli utili, ma regalo o premio agli operai fatto con una parte delle eccedenze sull’utile normale.

Noi futuristi crediamo che bisogni imporre al più presto l’azionariato sociale cioè: la partecipazione degli operai alle imprese. Questa concezione geniale e pratica che è andata formandosi attraverso una serie di tentativi in America, in Francia e in Inghilterra, ha incontrato delle ostilità feroci che si giungerà però a superare vittoriosamente.
Filippo Carli, segretario generale della Camera di Commercio di Brescia, illustra, spiega e propugna con precisione lucida nella Rivista dell’Industrie illustrate italiane l’azionariato sociale.
Filippo Carli dice:

Il regime della fabbrica, diffusosi nell’Europa occidentale dopo la rivoluzione industriale inglese, spezzò definitivamente i rapporti di proprietà fra l’operaio e lo strumento di lavoro. Dopo di allora sorse ripetutamente, nei varî paesi, l’idea di ricostituire l’associazione fra il capitale ed il lavoro, poichè si sentiva più o meno oscuramente che in questa era la chiave dell’armonia fra le parti cooperanti alla produzione. Bisogna riconoscere però che il movimento fu affatto inadeguato allo scopo: molti tentativi fallirono, altri si trascinarono più o meno stentatamente, parecchi
furono causa di profonde disillusioni. Tuttavia è da chiedersi se quegli esperimenti si compiessero con quella larghezza di vedute che sarebbe stata necessaria, e con quella sincerità che è
condizione indispensabile del loro successo.
Fin dal 1825 si ebbero in Inghilterra i primi tentativi di partecipazionismo operaio, e da quell’anno fino al 1910 si fecero 221 di tali esperimenti, dei quali solo 70 erano in esistenza nel 1910, secondo i rilievi fatti dall’Ufficio inglese del Lavoro; e, in fondo, gli operai inglesi considerano attualmente questo procedimento con indifferenza. In Francia già negli anni quaranta, il movimento connesso alla età d’oro della borghesia, fece sorgere in alcuni spiriti illuminati l’idea della partecipazione
ai profitti. Il primo tentativo concreto fu quello di Jean Leclaire nel 1842, il quale incontrò ogni sorta di difficoltà. Tuttavia l’idea fece strada, e nel 1879 per la prima volta fu proposto un disegno di legge al Parlamento francese da Laroche-Joubert, nell’intento di «pousser au système coopératif, c’est-a-dire à l’association de l’intelligence du capital et du travail, par la participation imposée aux adjudicateurs…». Il concetto era che lo Stato imponesse la partecipazione agli aggiudicatarî dei lavori pubblici, per dare esso stesso l’esempio e per dimostrare l’utilità ai liberi imprenditori.
L’idea fu ripresa nel 1895 dal Guillemet, persuaso com’era «qu’il n’y a rien de plus difficile à faire entendre aux gens que leur propre intérêt» e che quindi bisognava che lo Stato desse l’esempio. Dopo altri progetti, il Godard, nel 1909, si pose da un punto di vista più ampio, chiedendo la creazione di actions de jouissance du travail nell’intento di imporre alle società anonime l’ammortamento del loro capitale e di rendere il capitale iniziale e il lavoro comproprietarî dell’attivo sociale liberato rispetto al primo mediante il rimborso delle azioni. Era questa la via maestra del nuovo partecipazionismo, la quale doveva condurre alla legge del 26 aprile 1917 sulle società anonime a partecipazione operaia.
I principî fondamentali di questa legge, che si può considerare come il passo più decisivo fatto dalla legislazione moderna in tale campo, sono i seguenti:
1° Gli operai avranno diritto ad una parte dei beneficî realizzati dall’impresa a cui sono adibiti.
2° Essi partecipano alla sua gestione, saranno rappresentati alle Assemblee generali, avranno il loro posto nel Consiglio di Amministrazione.
3° Essi avranno un diritto di credito eventuale sull’effettivo della società.

Dice l’art. 1 della legge: . . . . «Le azioni della Società si compongono: a) di azioni o parte di azione di capitale; b) di azioni dette azioni di lavoro. Le azioni di lavoro sono la proprietà collettiva del personale salariato (operai ed impiegati dei due sessi) costituito in società commerciale cooperativa di mano d’opera in conformità dell’art. 68 della legge 24 luglio 1867, modificata dalla legge 1° agosto 1893. Questa società di mano d’opera comprenderà obbligatoriamente od esclusivamente, tutti i salariati adibiti all’impresa da almeno un anno ed aventi più di 21 anni di età….». E per tal modo il lavoro, del pari del capitale, costituisce un diritto fisso e permanente, diritto che da origine ad un’azione, l’azione di lavoro. Questo geniale concetto dell’azione di lavoro, viene a sovvertire completamente la nozione corrente del salario, ed a elevare il salariato al livello di un collaboratore del capitalista. Esso contiene in sè potenzialmente una profonda trasformazione economico-sociale, trasformazione alla quale noi pure dobbiamo mirare. Certo, non mancano le obbiezioni di carattere dottrinale contro il principio informatore di tale legge, come non mancheranno le difficoltà della sua pratica applicazione: ma è fuor di dubbio che essa contiene una formola fondamentale di equilibrio sociale.
La grande idea è lanciata, un’idea che ha la potenza di un profondo rivolgimento legale nei rapporti fra le classi: «l’azionariato sociale». C’è qui veramente la chiave dell’armonia fra capitale e lavoro nel dopo guerra: c’è tutto l’avvenire. Se le classi dirigenti hanno qualche incertezza, qualche ondeggiamento nell’applicazione di questo principio, sono perdute. E notisi che la
legge francese non rappresenta se non un primo passo sulla via che deve condurre alla piena attuazione del principio: essa non sancisce che una facoltà, mentre si deve venire all’obbligatorietà;
e probabilmente essa è destinata a combinarsi con alcuni principî propugnati dal Briand fino dal 1910. Secondo il progetto Briand, il 33% dei beneficî sarebbe riservato agli operai; il 33% al Capitale ed al Consiglio di Amministrazione, in cui gli operai sono rappresentati in proporzione di almeno 1/4 dei membri; l’altro 33% sarebbe distribuito, quanto al 17% sotto forma di premi a compensare gli operai di élite, e quanto al 16% al direttore tecnico, ingegneri, consigliere delegato, sotto forma di supplemento dei loro stipendi. È probabile dunque che notevoli passi innanzi si debbano fare; ma la via è questa, ed ogni deviazione sarebbe rovinosa: giacchè non si può non riconoscere la legittimità storico-sociale e demografico-economica del fondamento su cui posa il nuovo principio. L’impresa non è più, nella nostra società, una funzione privata: è una funzione
pubblica nei suoi presupposti, nel suo svolgimento, nelle sue conseguenze. Viceversa l’imprenditore nell’atto in cui assolda mille, duemila, diecimila operai, per una determinata forma di produzione, tende ad accaparrare nel proprio individuale interesse una parte delle forze nazionali: la nazione gli cede una parte del proprio organismo affinchè egli ne disponga come crederà più opportuno: e da allora la vita e l’avvenire di questa parte della nazione, dipendono dal suo arbitrio e dalla sua capacità. A questo punto è legittimo che sorga il diritto della collettività nazionale a limitare quello dell’individuo: rappresentata da quei mille o duemila o diecimila operai che furono assunti dall’individuo imprenditore – il quale, notisi bene, deve allo stesso ambiente sociale una gran parte della sua capacità tecnica e della sua potenzialità economica – la collettività nazionale insorge ed
afferma il suo diritto a partecipare all’impresa. Spunta l’azione sociale. Un radicale rivolgimento è avvenuto nei principî del salario, poichè questo riesce così composto di due quote: una quota con la quale all’operaio è assicurata la semplice esistenza e che pertanto si potrebbe chiamare biologica, ed una quota con la quale e per la quale l’operaio partecipa in modo cosciente ai beneficî della gestione sociale.

Umberto Notari, direttore delle Industrie illustrate italiane, da me interrogato sull’opposizione che la sua campagna in favore dell’azionariato sociale ha incontrato nell’ambiente industriale, mi disse:
«Uno dei principali oppositori, Pirelli, non ha trovato, in fondo, che queste due obbiezioni:
1) Accogliere nel consiglio di amministrazione degli operai vuol dire accogliere dei possibili propalatori o trafugatori di sistemi, di metodi speciali, di formule segrete e di brevetti preziosi, dato che gli operai possono domani abbandonare l’azienda od officina per recarsi in un’altra.
2) Le maestranze sarebbero sempre più o meno malcontente degli operai che le rappresenterebbero nel consiglio d’amministrazione.
In realtà, mi disse Notari, «negli industriali si manifesta una irriducibile repugnanza ad avere al fianco l’operaio servitore o schiavo di ieri».
Vecchia concezione medioevale del padrone capitalista chiuso coi suoi amici azionisti nel ricco ed elegante studio che guarda attraverso gli eleganti pizzi delle sue tendine il fiume nero degli operai che scorre nelle vaste arterie della sua immensa fabbrica fra il rosseggiare degli alti forni e le cataste di coke.
Ma l’ostilità – soggiungeva Notari – viene anche dagli operai, i quali non comprendono assolutamente l’ascensione morale che l’azionariato offre loro e sono d’altra parte sobillati dai capi e
agitatori contro l’azionariato stesso che tende a distruggere ogni loro ragione d’essere, poichè addormenta la lotta di classe».
Notari conveniva con me che in fondo si tratta di ostacoli di un valore molto relativo.

 

 

19.
Sintesi della concezione di Mazzini sulla proprietà e la sua
trasformazione.

 

La proprietà come è oggi costituita manca di qualsiasi titolo di giustificazione.
Il valore di ogni proprietà è un prodotto sociale. Il possesso deve essere legittimato da una sociale utilità. La legittima proprietà di ogni bene non può spettare che alla collettività.
Il lavoro deve con la libera associazione diventare padrone del suolo e dei capitali d’Italia.
Il lavoratore non deve passare dal salario del privato a quello dello stato (collettivismo), ma dello stato deve servirsi per elaborare il nuovo ordinamento economico che lo libererà dallo
sfruttamento.
Dobbiamo spingere lo stato a riconoscere il carattere e la funzione sociale della Proprietà e quindi ad intervenire per una sempre più giusta distribuzione di essa. Dobbiamo tendere alla nazionalizzazione delle terre, delle acque e del sottosuolo.

Bisogna distinguere fra proprietà ed esercizio.
Bisogna sottrarre la proprietà all’arbitrio individuale. Ma non affidarne l’esercizio allo stato. Lo stato deve affermare in nome della collettività il diritto sociale della proprietà.
L’esercizio deve essere affidato agli individui, gruppi, associazioni.
Quando lo stato avrà accettato il principio che il valore e la funzione della proprietà sono sociali bisognerà disporre perché ogni terra dia il suo massimo rendimento e perchè ogni braccio trovi occupazione adeguata. Far passare le terre incolte dei latifondi e di tutti i terreni che non rendono dalle mani degli attuali detentori a quelle dei lavoratori in enfiteusi o gruppo di affittanze collettive.
Il passaggio può farsi mediante esproprio o automaticamente; molto meglio con l’abolizione del diritto di successione.

 

20.
La riforma fondiaria di Henry George.

 

Il futurista Magamal riassume così le teorie di Henry George sulla riforma fondiaria:
Soltanto in breve qui possiamo parlare della sua opera principale Progresso e povertà, di cui il punto di partenza è appunto quel problema sopraccennato della povertà crescente, nonostante il continuo progresso materiale. Per quanto è possibile, lasceremo parlare Henry George stesso:
«Dove sono le speranze del secolo passato, – dice George nel capitolo d’introduzione – svegliate dalle nuove scoperte, che aumentano le forze produttive della natura; la speranza, che la forza del vapore e dell’elettricità fossero per dare a tutti gli uomini la possibilità di vivere con una certa agiatezza? È evidente, purtroppo, che il progresso dell’industria, o meglio il progresso materiale, non è stato capace d’alzare il livello del benessere delle classi inferiori. La posizione di queste classi, per contro, ha peggiorato precisamente sotto l’influsso del così detto «progresso materiale».
«Le nuove forze, nonostante che abbiano la possibilità in sè di inalzarsi, non influiscono sull’edificio sociale, cominciando dal di sotto, come si sperava e si credeva durante lungo tempo, ma esse lo colpiscono nel luogo che serve come punto medio fra la cima e la base. È evidente, che un cuneo enorme è stato messo non sotto la società, ma l’ha penetrato in mezzo. Quelli che sono al di sotto del punto sono stati abbassati più giù oppure addirittura ne sono schiacciati».
L’economia politica, benchè sia una scienza esatta, non ha potuto finora scoprire la legge, che esprime questo fenomeno. Le varie scuole d’economia si contradicono nelle loro risposte, benchè tutte riconoscano la legge fondamentale, che sta alla base di ogni indagine economica: la legge, che «gli uomini cercano di soddisfare i loro bisogni col minimo sforzo possibile».
La produzione di una società è la somma delle ricchezze, prodotte da essa, è il suo fondo comune. I suoi tre fattori sono la terra, il lavoro ed il capitale.

  1. Il termine terra abbraccia tutti i prodotti, tutte le forze, tutti i vantaggi della natura preesistenti al lavoro umano.

  2. Col termine lavoro s’intende la somma di ogni attività umana, fisica o spirituale, che sia diretta alla produzione dei beni e alla utilizzazione della «terra».

  3. Il capitale è quella parte dei prodotti che si hanno dalla combinazione del «lavoro» e della «terra», la quale parte non è consumata immediatamente, ma è destinata come riserva o come strumento per la produzione di altri beni. Il capitale non è una sorgente prima della produzione; ma è uno strumento creato dallo spirito umano, per rendere possibile la divisione del lavoro e una più intensa produzione. «Il capitale è quella parte del lavoro umano che è immagazzinato, affinchè serva ad un nuovo lavoro».

    Perciò la terra non è capitale. Invece[3] le case, le officine, le provviste, gli strumenti, le macchine, ecc., sono inclusi nel concetto di «capitale».

    Questi tre fattori: la terra, il lavoro e il capitale si distribuiscono i prodotti di tutte le attività umane.

    Il lavoro riceve il salario. È indifferente che si tratti di lavoro fisico o spirituale; che la ricompensa sia data in una forma o in altra, da parte di chi fa lavorare; che la ricompensa sia o non sia il frutto di un lavoro libero. «Salario» è la ricompensa che si consegue in qualsiasi forma per qualsiasi sforzo fisico o spirituale. Secondo H. George, la teoria, che sia il capitale, donde si prende il salario, è del tutto sbagliata. In realtà il salario, invece di essere preso dal capitale, è preso dal prodotto del lavoro, per il quale esso è pagato: il salario è creato dal lavoro. Guadagnare vuole dire creare. Ogni lavoratore, compiendo il suo lavoro, si crea in realtà un fondo, donde è preso il suo salario. Il capitale perciò non può limitare l’industria: esso può soltanto determinare la sua forma, l’uso degli strumenti e la divisione del lavoro.

    L’unica limitazione ha luogo, quando all’uomo non è possibile il libero accesso alle ricchezze naturali della terra. Nè può la pressione della popolazione crescente essere la causa della tendenza del salario verso il minimo. Il secondo libro dell’opera Progresso e Povertà è dedicato a una dimostrazione chiarissima, che la teoria di Malthus non è vera: la realtà non dà la prova, che mentre la popolazione tende ad aumentare in proporzione geometrica, i mezzi di esistenza non possano crescere che in proporzione aritmetica. Nè sono giustificate le analogie dell’uomo coll’animale, che servono come fondamento principale della teoria Malthusiana. Sì, è vero, che l’uomo è un animale, «ma un animale più qualche altra cosa».

    La causa del fenomeno, che il salario tende al minimo, deve essere cercata non nelle leggi, che governano la produzione dei beni, ma nelle leggi, che governano la distribuzione. Come

    avviene dunque la distribuzione fra i tre fattori suddetti?

    Il salario, il compenso per il lavoro, e l’interesse, l’indennità per l’uso del capitale, cioè delle provviste e degli strumenti, non hanno subìto, col crescere del progresso, nessun aumento. Per contro, coloro che vivono soltanto col «salario» del lavoro si trovano nelle condizioni peggiori. E se interroghiamo i capi delle iniziative commerciali ed industriali, troveremo tutti concordi nel lamentare le difficoltà che essi trovano nel ricavare dai loro impianti un «interesse» abbastanza largo.

    Da chi è assorbita la massima parte dei prodotti della civiltà? È assorbita dal terzo fattore, sotto la forma della rendita fondiaria, che è appunto quella parte della produzione che tocca a chi concede l’uso della «terra» o delle forze della natura.

    Ora questa rendita non è il risultato della attività dei singoli proprietari; essa è il prodotto di tutti i collaboratori della produzione. Ne segue la dottrina fondamentale di Henry George: la rendita fondiaria deve diventare proprietà sociale.

    George propone di sequestrare la rendita fondiaria, per gli scopi sociali, per mezzo di una imposta, lasciando all’individuo il diritto di godere dei miglioramenti, di cui egli è l’autore; tutte le altre tasse, che ora aggravano l’industria; tutti i dazi, che impediscono il libero scambio, debbono essere aboliti. Di qui il nome «single-tax» league, che fu dato in molti paesi ai seguaci di H. George.

Il modo pratico di realizzare una tale riforma importante è esposto da George in un modo completo; però, come vedremo subito, parlando dei suoi seguaci presenti, ogni paese ha elaborato il suo programma, adattandolo alle condizioni rispettive di ogni nazione.
La nostra patria ha avuto uno dei più grandi riformatori fondiari di cui l’ideale era la creazione di una classe di liberi contadini.
Parlo di Tiberio Gracco, il quale insieme al fratello morì per il suo ideale, rimasto finora senza realizzazione.
«Le bestie selvaggie hanno le loro caverne ed i loro giacigli; ma agli uomini che lottano e muoiono per l’Italia non è rimasta che l’aria e la luce del cielo». Ecco, con che parole Tiberio Gracco, secondo Plutarco, invoca la giustizia per i lavoratori della terra.
È un fenomeno strano, che proprio nel paese di Tiberio Gracco le idee del suo fratello spirituale George non abbiano svegliato l’attenzione del pubblico. Quando nel 1909 Giovanni Carelli, l’autore sunnominato del Riscatto della Terra, cominciò la sua propaganda di una riforma fondiaria, non trovò, che una trentina d’aderenti, nonostante che i primi numeri del suo organo Terra fossero fatti in un modo molto interessante contenendo varî articoli preziosi.
Non posso non nominare qui le opere di Achille Loria, il quale pure preconizza un regime della terra libera; secondo lui «questo nuovo ordinamento della proprietà non creerà già una nuova
costituzione economica – ciò che sarebbe inammissibile, perchè il diritto è impotente a mutare i rapporti economici, dei quali invece è creatura e strumento – ma darà riconoscimento e pacifico assetto ad uno stato di fatto, che è imposto ormai dalla evoluzione economica e che si realizza, ad ogni modo, con isfrenata veemenza, anche senza intervento di legge».
Interessante è poi il disegno di legge del Rinaldi, che propone che tutte le terre pubbliche ancora esistenti in Italia, cioè quelle appartenenti ai comuni (quelle soggette agli usi civili e quelle patrimoniali), alle Opere Pie, agli enti ecclesiastici ancora conservati e al patrimonio dello stato, vengano non già quotizzate, ma assegnate ai poveri di ciascun comune riuniti in un ente giuridico sotto il nome di comunanza agricola, al quale ente verrebbe concesso il diritto di proprietà su queste terre, e dal quale queste terre verrebbero poi concesse in affitto a chi ne ha il diritto.
Il progetto Tittoni, mirando ad una forma demaniale ad uso comune, il qual progetto fu combattuto da Ferri, è pure di un certo interesse. Sarebbe a desiderarsi, che per l’ordinamento fondiario nella Libia l’Italia seguisse l’esempio dato dalla Germania nella colonia di Kiautsciu e che «quell’onda di prevenzione, di animadversione e di pauroso sospetto, che fluttua intorno all’opera dello scrittore americano, trovi la sua bonaccia, e molti s’accostino ad osservare più dappresso o senza passione,
l’interessante edificio».
Tanto più, che questo è un edificio, di cui il fondamento fu messo secoli fa. «Non dovete mai vendere la terra; perchè essa è mia; voi siete soltanto i miei ospiti e vassalli» (3 Mos. 25,23) leggiamo nella Bibbia, e tutti i profeti israeliti erano in un certo senso riformatori fondiari, come lo erano pure gli antichi Brahmini, di cui il proverbio: «A chi appartiene la terra, a colui appartengono purtroppo le sue frutta» contiene la verità centrale delle teorie di Henry George.

 

21.
Denaro ai combattenti!

 

È assolutamente urgente che l’Italia offra con una sufficiente somma di denaro un ponte fra guerra e pace a tutti i combattenti.
Questi benemeriti, questi vincitori non devono in alcun modo sentire i danni di essersi battuti, di essere stati lontani dalla vita nazionale. Sarebbe il più sudicio e vigliacco dei tradimenti.
Sarebbe il più funesto degli errori.
Purtroppo fino ad oggi i provvedimenti sono assolutamente meschini. Lo stesso avviene in Francia. Eppure occorre trovare i denari per la Pace, dopo aver trovato quelli per la guerra.
Bisogna che gli uomini di governo siano energici e al di fuori di ogni pressione personale, senza alcun rispetto a interessi particolaristici.
Si dichiara che l’erario è esaurito e non ha possibilità di nuovi prestiti (eppure la nostra grande vittoria che ci centuplica dovrebbe essere una garanzia poderosa); ebbene eccovi due
soluzioni:

 

1a Soluzione:

 

Vendiamo il patrimonio artistico!
Si dice che noi siamo un popolo a tutti superiore per il suo genio elastico e creatore, il suo eroismo e per la sua giovanile resistenza muscolare, ma disgraziatamente povero.
No. Non è povero, il popolo italiano. Noi futuristi affermiamo che il popolo italiano è il più ricco della terra, poichè possiede un incalcolabile capitale inutilizzato, costituito dall’enorme patrimonio delle opere d’arte antiche ammucchiate nei suoi musei. Di questo patrimonio artistico, noi proponiamo senz’altro al Governo la vendita graduale e sapiente. Dato che soltanto le Gallerie degli Uffizi e Pitti furono valutate più di un miliardo, l’Italia sarà in pochi anni abbastanza ricca per:

1) avere la prima marina mercantile del mondo;
2) avere una grande navigazione fluviale;
3) intensificare decisamente tutte le industrie esistenti, e creare immediatamente le mancanti;
4) sviluppare fino al rendimento massimo l’agricoltura e sanare tutte le zone malariche;
5) vincere completamente l’analfabetismo;
6) abolire totalmente ogni imposta per venti anni almeno;
7) dare un utile compenso ai combattenti.

 

Prevediamo tutte le obbiezioni e le distruggiamo: La vendita del nostro patrimonio artistico, ben lungi dal diminuire il nostro prestigio, dimostrerà al mondo che un popolo giovane e sicuro del proprio avvenire ne sa affrontare tutti i problemi, trasformando in forze vive le sue ricchezze morte, come un aristocratico intelligente rinuncia ad ogni fasto vano e lancia il proprio oro nell’industria.
Sarà altamente patriottico il gesto col quale l’Italia, rompendo vecchie catene tradizionali e sentimentali, trasformerà le sue vecchie tele e i suoi vecchi marmi in acciaio utile, veloce e dominatore. D’altra parte, le nostre opere d’arte antiche, vendute in America, in Inghilterra, in Russia o in Francia, diventeranno la più efficace delle réclames al genio creatore della nostra razza.
Genio inesauribile, questo, poichè si manifestò oggi nel nostro grande esercito improvvisato che vinse, in matematica militare e in eroismo garibaldino, un esercito agguerrito e preparato in più di 40 anni. I nostri eroi del Carso, dell’Isonzo e del Trentino hanno cento volte sorpassato in grandezza tutti gli eroi romani.
Non viviamo dunque più del nostro passato; non siamo più soltanto «figli di grandi uomini»; il nostro prestigio presente ci garantisce una illimitata grandezza futura. Siamo il popolo più artista della terra. Nessuno perciò potrà dubitare che dopo la nostra grande vittoria sapremo anche
conquistare un assoluto primato artistico. Il nostro glorioso Rinascimento sarà superato dall’arte italiana di domani.
Si obietterà anche che questa vendita allontanerà dall’Italia il fiume rimunerativo dei visitatori stranieri. Non vogliamo discutere qui sull’utilità dell’industria dei forestieri, che pur regalando all’Italia molti milioni, è tanto aleatoria da poter cessare per un caso isolato di colera o per una scossa di terremoto, ed è sempre dannosa poichè snazionalizza e umilia il nostro paese, lo riempie di spie e trasforma un terzo degl’italiani in albergatori, in ciceroni e in boys d’hôtel.
Dichiariamo soltanto che i forestieri verranno sempre, purtroppo, in gran numero in Italia, poichè la nostra penisola ha il clima più dolce, il cielo più bello, la massima varietà di paesaggi, ed è insomma il riassunto meraviglioso di tutte le bellezze della Terra. Siccome la vendita delle nostre opere d’arte antiche sarà necessariamente graduale, i forestieri, per molto tempo, se ne accorgeranno appena. Essi troveranno sempre ad ogni modo, sul nostro suolo, torri, mura, chiese e palazzi da ammirare.
D’altra parte, tutti i nostri vecchi quadri e le nostre vecchie statue vanno continuamente decadendo in una lenta agonia e sono destinate a perire. La loro vendita dunque s’impone a un popolo come l’italiano, praticissimo, il quale deve fare oggi ciò che domani si farebbe con vantaggio assai minore.
La vendita dovrà essere fatta con somma perizia e abilità. Ne affideremo volentieri la direzione ai più illustri nostri cultori e critici d’arte, che ne regoleranno la valutazione sul mercato mondiale, mantenendone alti i prezzi e imponendo in ogni contratto delle clausole di riscatto. Nessuno vieterà all’Italia, ingigantita da queste utili vendite, di riacquistare più tardi ciò che fu venduto.
Un’altra obiezione può essere questa: Non si devono privare gl’italiani del piacere di godere in casa loro le opere dei nostri grandi antenati. Rispondiamo. È assurdo che su 40 milioni d’italiani, i 39 milioni che sono incapaci o non hanno tempo di amare le opere d’arte antiche continuino ad essere esauriti, e fors’anche esasperati fino alla rivolta, da sempre più gravose imposte, mentre il paese possiede un colossale capitale artistico praticamente trasformabile in tanto oro.
Supponendo nella maggioranza incolta della popolazione italiana una sempre crescente possibilità e passione di gustare il possesso delle opere d’arte antiche, noi proponiamo che una piccola parte del prodotto della vendita sia consacrata a nuovi e più profondi lavori di scavi archeologici, i quali riempiranno certo, in pochi anni, i vuoti dei nostri musei e delle nostre piazze con innumerevoli altre opere d’arte antiche. Possiamo infatti affermare senza ombra di paradosso o d’ironia che mentre gli altri paesi posseggono miniere di carbone, di ferro o d’oro, il nostro possiede le più inesauribili miniere archeologiche. Il sottosuolo di Roma, quello dell’Umbria, della Toscana, della Campania e della Sicilia, possono diventare le nostre Cardiff, le nostre Westfalie, il nostro Capo di Buona Speranza. Certe zone saranno meno fruttifere, ma anche per quelle si tratta di lavoro, e io non esito ad affermare che a tre o quattrocento metri sotto la mia Casa Rossa, a Milano, dorme un prezioso, elegante e nostalgico Tempio di Venere. Il passato galvanizzato così, risorgerà per partecipare al gran progresso nazionale. I nostri grandi avi pittori e scultori, da Giotto a Botticelli, a Cellini, a Michelangelo, a Raffaello, parteciperanno alla nostra vita formidabile, ombre di futuristi
geniali del loro tempo, finalmente liberate dalla muffa e dal tedio dei musei.
Queste idee, d’un futurismo moderato, che io comunicai nel 1913 allo Standard di Londra, e nelle quali il mio intervistatore inglese trovò allora qualche cosa di vero, di pratico e di
patriottico, potevano sembrare, in tempo di pace, audaci e divertenti paradossi. Oggi, dopo la grande vittoria noi sentiamo il dovere di proporre al Governo italiano la vendita graduale e sapiente delle nostre opere d’arte antiche, come una soluzione razionale del compenso ai combattenti.

 

2a Soluzione:

 

Sequestriamo due terzi dei guadagni ai fornitori. Il futurista Settimelli dice:
Bisogna colpire subito i fulminei esagerati guadagni dei fornitori.
Ragioni sopratutto sentimentali ci spingono a far gravare la mano – prima che su ogni altro proprietario – sui fornitori militari.
Nessuna ricchezza potrà oggi essere ingiusta di fronte al combattente come quella accumulata in occasione della stessa guerra che gli ha portato disagi, ferite, sacrifici, pericoli d’ogni sorta.
Afferma giustamente Léon Daudet: «L’arco di trionfo non è tutto!». E nemmeno i paroloni di riconoscenza. Occorre del buon pane, del buon vino, del buon panno a questi quattro milioni di maschi italiani che hanno salvata e ingigantita la loro patria e che oggi le sono più che mai indispensabili.
Troppe automobili da passeggio per neo-milionarie, troppi sfarzi son sbocciati fuori dalle lunghe teorie dei rudi carriaggi da guerra!
Signori del governo, trasformate questo lusso in denaro per i combattenti, date all’Italia questa eleganza più grezza ma più sana!
Denaro, denaro, denaro per i vincitori! Non è un’elemosina, ma il riconoscimento di un sacrosanto diritto che nessuno e nessuna forza potrà togliere loro. Non è possibile truffare il Destino.
All’opera, signori del governo, finchè siete in tempo!
Il nostro manifesto politico esige: il sequestro dei due terzi di tutte le sostanze guadagnate con forniture di guerra.
Costituzione di un patrimonio agrario dei combattenti. Occorre acquistare una determinata quantità della proprietà terriera d’Italia, pagandola a prezzi da fissarsi con criterii speciali, e darla, con le debite cautele e riserve, ai combattenti, o, in caso di loro soccombenza, alle famiglie superstiti.
Al pagamento delle terre così acquistate deve provvedere la Nazione intera, senza distinzione di classe, ma con distinzione progressiva di posizione finanziaria, con elargizioni volontarie e
con imposte.
Il pagamento delle terre occorrenti potrebbe estinguersi entro cinquant’anni dallo spossessamento, in modo che il contributo della Nazione, sotto forma di elargizione o di imposta, sarebbe
minimo. Rientrino, se ve ne sono, nel patrimonio agrario dei combattenti, le terre espropriate per debito d’imposta.
Tutti i lavoratori manuali che avranno prestato servizio militare nella zona delle operazioni dovranno essere inscritti per cura dello stato nella «Cassa Nazionale di previdenza per la
invalidità e la vecchiaia degli operai» a far data dal primo giorno del loro effettivo servizio. Lo stato dovrà pagare i contributi annuali per tutta la durata della guerra. L’iscrizione dei militari
combattenti alla «Cassa Nazionale» avverrà d’ufficio e sarà posta a carico dello stato per tutto il periodo corrispondente al servizio militare, produrrà un onere continuativo a carico degli interessati
per tutto il resto della loro vita.
L’assegno congiunto alla concessione di medaglie al valor militare sarà triplicato, – Il limite di età stabilito nei corsi sarà prolungato per i reduci della zona delle operazioni di un tempo equivalente alla durata della guerra. – Ai reduci dalla zona delle operazioni, quando ottengono un pubblico impiego, saranno computati il servizio militare e le campagne agli effetti dell’anzianità e della pensione, provvedendo lo stato, quando ne sia il caso, ai versamenti alla Cassa Pensioni per il tempo passato dal militare sotto le armi. Per dieci anni dopo la guerra le amministrazioni dovranno alternare concorsi liberi, con concorsi esclusivamente riservati ad reduci della zona delle operazioni ed ai mutilati di guerra fisicamente suscettibili del servizio richiesto.
Preparazione della futura socializzazione delle terre con un vasto demanio mediante le proprietà delle Opere Pie, degli Enti Pubblici e con la espropriazione di tutte le terre incolte e mal coltivate.

Energica tassazione dei beni ereditari e limitazioni di gradi successorii.
Sistema tributario fondato sulla imposta diretta e progressiva con accertamento integrale.

Libertà di sciopero, di riunione, di organizzazione, di stampa. Trasformazione ed epurazione della Polizia.

Abolizione della Polizia segreta.

Abolizione dell’intervento dell’esercito per ristabilire l’ordine.
Giustizia gratuita e giudice eletto dal popolo.
I minimi salari elevati in rapporto alle necessità della esistenza. Massimo legale di 8 ore di lavoro. Parificazione ad eguale lavoro delle mercedi femminili con le mercedi maschili.
Leggi eque nel contratto di lavoro individuale e collettivo.
Trasformazione della Beneficenza in assistenza e previdenza sociale. Pensioni operaie.
Industrializzazione e modernizzazione delle città morte che vivono tuttora del loro passato. Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria del forestiero.
Sviluppo della marina mercantile e della navigazione fluviale. Canalizzazione delle acque e bonifiche delle terre malariche.
Mettere in valore tutte le forze e le ricchezze del paese. Frenare l’emigrazione. Nazionalizzare, utilizzare tutte le acque e tutte le miniere. Concederne lo sfruttamento a enti pubblici locali. Agevolazioni all’industria e all’agricoltura cooperative. Difesa dei consumatori.

 

 

22.
Abolizione della coscrizione, esercito volontario, scuole di forza,
coraggio e patriottismo; corsi di strategia e d’armi.

 

Dopo lo smembramento dell’impero austroungarico e lo sfasciamento del suo esercito noi proponiamo senz’altro l’abolizione della coscrizione che la conflagrazione ha dimostrato assolutamente inadatta a preparare la vittoria.

Crediamo che bisogni rimpiazzarla con un indirizzo sistematicamente sportivo, pratico e tecnico da darsi alle scuole.
Istituiremo delle scuole di forza fisica, di coraggio e di patriottismo concreto che producano dei giovani agilizzati e rinforzati simili a quelli usciti senza malattie, senza gravi ferite dalla guerra di trincea. Non crediamo che occorra la vita assurda, deformata, esasperata, contorta, di tre anni sopportati nel sudiciume delle Caserme per formare lo spirito militare. Il giovane italiano non ha bisogno di 3 anni di scuola a piedi abbrutente per imparare ad andare all’assalto e a circondare una mitragliatrice nemica.
L’esercito è una costruzione medioevale che è stata quasi radicalmente deformata e spaccata per vincere la guerra.
È tempo che si concepisca nettamente la possibilità di una guerra fuori dal concetto di esercito.
Le scuole di forza, coraggio, patriottismo che noi vogliamo istituire devono essere concepite fuori della vecchia mentalità del dovere pesante e della disciplina monotona. Con una giocondità
primaverile di gioventù che si diverte, giuoca, e involontariamente perfeziona così la potenza dei muscoli addestrandosi allegramente a scattare in avanti, a correre, a irrigidirsi, a snodarsi, per evitare una legnata, prendere a volo un oggetto lanciato, traversare un fiume a nuoto, saltare un ruscello, superare un muro, arrampicarsi, ecc.
Queste scuole devono dare agli adolescenti l’orgoglio del proprio corpo, della propria salute fisica e della propria bellezza muscolare. Da queste scuole devono uscire dei giovani muscolosi, agili e belli che sappiano non soltanto leggere e scrivere, ma anche atterrare un aggressore, salire su un albero
velocemente, considerare il coraggio come la virtù essenziale dell’uomo, la vigliaccheria come il peggiore delitto, e la qualità d’italiano come un titolo di nobiltà.
Fra questi giovani sarà facile reclutare un piccolo corpo coloniale volontario con un pratico sistema di quadri elastici adatti a formare i quadri delle grandi armate improvvisabili in caso di guerra.
Non credo alla utilità della vasta, ingombrante costruzione pletorica e passatista che si chiama lo stato maggiore. Dei generali geniali e decisivi come Badoglio e Pétain benchè venuti dallo Stato Maggiore, ne dimenticarono sistematicamente la vecchia dottrina durante questi 4 anni di guerra, sviluppando il loro ingegno strategico e il loro esperto maneggio di fanterie e di cannoni nell’esperienza quotidiana, caso per caso, osservando la linea, contrapponendo astuzie ad astuzie, perfezionamenti a perfezionamenti.
Il generale Caviglia e il geniale Foch si dimostrarono grandi condottieri perchè unicamente preoccupati di agire con buon senso antiscolastico, risolvendo tutti i problemi con un ingegno ancora giovanile che aveva saputo resistere ai pedanteschi insegnamenti dello Stato Maggiore e della Scuola di guerra.
Quattro anni di guerra ci hanno dimostrato che la cavalleria nel suo stato attuale non può avere che una funzione decorativa da parata o da torneo medioevale. Enorme paralitico e paralizzante bersaglio offerto alle artiglierie nemiche e senza vera potenza offensiva.
Impiegare delle masse di cavalleria non può divertire che un cervello da macellaio.
Impiegare la cavalleria per squadroni o per plotoni in azioni di molestia o di collegamento equivale a dichiarare il fallimento della cavalleria.
Questa guerra ha assolutamente svalutato il cavallo. Prima, nei periodi di lotta di trincea, e ultimamente nell’ultima meravigliosa nostra offensiva manovrata.
Il fucile essendo stato quasi altrettanto svalutato che il cavallo e la guerra futura non potendo essere che una guerra di mitragliatrici, noi giungiamo al concetto di creare degli squadroni di mitraglieri a cavallo, utilizzando così il cavallo a portare celermente in punti lontani il maggior numero possibile di mitragliatrici. In una possibile guerra futura avranno perciò parte preponderante i mitraglieri ciclisti, le auto-mitragliatrici blindate, oltre le artiglierie. Perchè eventualmente domani delle armate così concepite siano facilmente improvvisate occorre che l’educazione sia imperniata oltre che sulla ginnastica e i giuochi sportivi anche sulla scienza meccanica.
Occorre inoltre istituire delle scuole di strategia e d’armi dove tutti i cittadini siano tenuti al corrente dei continui perfezionamenti di tutti gli ordigni di guerra.

 

 

23.
Il cittadino eroico, l’abolizione delle polizie e le scuole di
coraggio.

 

Tutto l’attuale sistema d’ordine è assolutamente bacato, reazionario, inefficace, balordo e spesso criminale.
Abolirlo, dunque, al più presto.
In massima ogni cittadino deve sapere difendersi. Lo stato deve intervenire soltanto in casi eccezionali per difendere l’individuo. Il principio del libero cazzotto, dosato e frenato da multe, esiste di già in America e in Inghilterra.
Le sommosse, le agitazioni di folla quando sono assolutamente assurde e senza la più piccola parte di vero diritto devono essere frenate, soffocate o spente ma senza intervento militare.
Bastano dei potenti getti d’acqua di pompieri. Se l’incendio prende proporzioni enormi vuol dire che c’è molta legna secca da ardere e che tutto deve bruciare.
I pompieri rientreranno con le pompe e lasceranno assoluta libertà al fuoco.
È assurdo che lo stato debba continuamente intervenire per difendere lo zotico, il lento, il cretino rapace che si lascia prendere dalla solita truffa all’americana.
Questo zotico rapace è molto più disprezzabile che il ladro stesso.
Non abbiamo nessuna compassione per un’altra categoria di cittadini lenti, podagrosi, e privi di agilità vitale che io chiamerei gli scimmioni di biblioteca.
Lo scimmione di biblioteca e lo scimmione della campagna devono sparire. Difenderli dalle aggressioni possibili non può essere che una immoralità.
Che ne dite per esempio di quel progetto futurista che consiste nell’introdurre in tutte le scuole un corso regolare di rischi e di pericoli fisici? I ragazzi saranno sottoposti indipendentemente dalla loro volontà alla necessità di affrontare continuamente una serie di pericoli sempre più terribili l’uno dell’altro sapientemente preparati e sempre più imprevisti come: Un incendio, un annegamento, un diluvio d’acqua, lo sprofondamento di un impiantito o il crollo di un soffitto.
Il coraggio è la materia prima, la materia essenziale perché secondo la grande speranza futurista tutte le autorità, tutti i diritti, tutti i poteri, siano brutalmente strappati ai morti e ai moribondi e dati ai giovani fra i venti e i quarant’anni.
Propongo l’abolizione delle attuali polizie. Rimpiazzarle con un corpo di cittadini scelti rimuneratissimi e poco numerosi che interverranno soltanto in casi eccezionali portando specialmente il peso della loro autorità e mai quello delle manette.
Propongo inoltre delle vere scuole di coraggio fisico, per addestrare la prima adolescenza ad affrontare con disinvoltura e superare ogni pericolo senza mai domandare aiuto e senza contare sulla forza pubblica. Questo coraggio diventato un’abitudine profonda diminuirà singolarmente le aggressioni che in un paese di coraggiosi tenderebbero fatalmente a sparire.
I nostri principî futuristi sono l’amore del progresso, della libertà, del pericolo, la propaganda del coraggio e l’eroismo quotidiano.
Nostri grandi nemici: tradizionalismo, mediocrismo e vigliaccheria.
Da un lucido amore del pericolo, da un coraggio consuetudinario e da un eroismo quotidiano scaturiscono appunto – naturalmente – la necessità immediata e la bellezza della
violenza.
Io vi parlo di tutto ciò in una forma assolutamente apolitica, alla quale voi senza dubbio siete poco abituati; e vi sguaino senza altri preamboli il mio pensiero, che voi potrete anche prendere per
un consiglio ad agire.
Non ignoro le prevenzioni accumulate in voi contro di noi futuristi, dalle più o meno allegre chiacchiere dei giornali mercenarî, custodi eunuchi della mediocrazia e del misoneismo italiani.
Forse non avete ancora un concetto esatto di ciò che siamo e di quel che vogliamo….

Immaginate nella malinconica e stagnante repubblica delle lettere e delle arti un gruppo di giovani, assolutamente ribelle e demolitore, che, stanco di adorare il passato, nauseato dal pedantismo accademico, avido di originalità temeraria, e anelante verso una vita libera avventurosa, energica e quotidianamente eroica, vuol sgombrare l’anima italiana da quel cumolo di pregiudizî, di luoghi comuni, di rispetti e di venerazioni, che noi chiamiamo il passatismo.
Ci consideriamo come l’acido nitrico distruttore che è bene gettare su tutti i partiti, già in putrefazione.
Nel nostro Manifesto futurista, pubblicato 11 anni fa dal Figaro di Parigi, noi esaltammo ad un tempo il Patriottismo, la Guerra – sola igiene del mondo – il gesto distruttore dei libertarî, e le belle idee per cui si muore, gloriosamente opposte alle brutte idee per cui si vive.
Certo, questi principii e queste parole non ebbero mai, fino ad ora, alcun contatto fra di loro. Voi foste abituati a considerare il patriottismo e la guerra come assolutamente contrarii alla idea anarchica, che fece esplodere tante vite, per la conquista di una maggiore libertà.
Affermo che queste due entità apparentemente contradittorie: la collettività e l’individuo, si compenetrano intimamente. Lo sviluppo della collettività non è forse infatti il risultato degli sforzi e delle iniziative particolari? – Così, la prosperità di una nazione è prodotta dall’antagonismo e dall’emulazione dei molteplici organismi che la compongono.
Ugualmente la concorrenza industriale e militare che si stabilisce fra i diversi popoli è un elemento necessario al progresso dell’umanità. Una nazione forte può contenere ad un tempo dei reggimenti ebbri di un patriottico entusiasmo e dei refrattarî assetati di ribellione! Sono, queste, due canalizzazioni differenti del medesimo istinto di coraggio, di potenza e di energia.
Il gesto distruttore dell’anarchico non è forse un richiamo assurdo e bello verso l’ideale dell’impossibile giustizia? Non è forse una barriera opposta alla tracotanza invadente delle classi dominatrici e vittoriose? Per conto mio, preferisco la bomba di un anarchico, allo strisciare del borghese che si nasconde nel momento del pericolo, o all’egoismo vile del contadino che si mùtila per non servire il proprio paese.
Quanto all’elogio della guerra, non costituisce certo, come si è preteso, una contradizione coi nostri ideali, nè implica un regresso verso le epoche barbare. A chi ci rivolge accuse simili, noi rispondiamo che alte questioni di salute e di igiene morale dovevano necessariamente esser risolte appunto per mezzo della guerra, prima di qualsiasi altra. – La vita della nazione non è forse simile a quella dell’individuo che combatte le infezioni e le pletore mediante la doccia o il salasso? Anche i popoli, affermiamo noi, devono seguire una costante igiene di eroismo, e concedersi gloriose docce di sangue!
E le conseguenze? mi direte voi…. Le conosciamo! Sappiamo che un periodo di miseria segue inevitabilmente la guerra, qualunque sia l’esito di essa. Periodo assai breve, però, quando la guerra sia vittoriosa, e meno lungo di quanto credete, nel caso di una sconfitta.
Ora, non abbiamo forse, senza luce di gloria, dei simili periodi di miseria, per effetto di una semplice crisi di borsa o di un basso giuoco di agiotaggio? Via! Bando a questi sentimenti usurai!….
Non avrete dunque più altro ideale che quello della comodità e del quieto vivere?
Voi avete disgraziatamente imparate dal giolittismo (anteguerra) e dal bissolatismo (dopo guerra) la nefasta e ridicola ricetta della pace usuraia e mercantile e paurosa.
Noi sosteniamo invece e propugnamo la doppia preparazione della guerra e della rivoluzione, nel cerchio di un patriottismo più intenso, sotto il divino nome d’Italia, scritto nel nostro cielo dai rossi vapori di un nuovo coraggio italiano.
Noi crediamo che soltanto l’amore del pericolo e l’eroismo, possano purificare e rigenerare la nostra razza.
Quelli fra voi che sono più ligi alla tradizione mi obietteranno che un simile programma intellettuale rimarrà fatalmente allo stato di utopia e di paradosso vano.
Arturo Labriola stigmatizzava in noi futuristi, poeti e pittori, la nostra tendenza a mescolare l’arte e la politica, per difendere l’orgoglio nazionale e favorire, insieme, il movimento ascensionale del proletariato. Arturo Labriola mi sembra sia incorso in un pregiudizio, abbastanza naturale, data la novità, nella storia, del nostro atteggiamento.
Provatevi infatti a rispondere a questa mia domanda:
– Dal momento che noi dobbiamo a parecchie generazioni di uomini politici lo stato spaventoso di corruzione, di opportunismo e di comodo scetticismo affaristico nel quale è caduto a poco a poco il parlamentarismo italiano, noi, poeti ed artisti, che soli abbiamo conservato – per quella che io chiamerei una assoluta mancanza di mercato rimunerativo – la fiamma di un disinteresse assoluto, sotto la luce acciecante di un ideale di bellezza irraggiungibile, – noi che scriviamo versi, dipingiamo quadri, componiamo musiche, senza speranza di guadagno sufficiente, non abbiamo forse, noi, il diritto d’insegnare il disinteresse? E perchè non dovrebbe dunque essere permesso, a noi, di scacciare i mercanti dal tempio e di offrire i nostri muscoli e i nostri cuori all’Italia, in nome dell’arte?
Ci credete forse incapaci di praticità politica, per eccesso di fantasia? Certo non potremo, malgrado tutte le nostre leggerezze artistiche, far peggio dei nostri predecessori. Del resto, noi ci crediamo attesi dalla storia. Avrete senza dubbio notato, nello svolgersi degli avvenimenti umani, che ad un periodo di violenza idealistica e generosa succede sempre un periodo di mercantilismo egoistico ed avaro, come quello che attraversiamo.
Ora, noi vogliamo risuscitare lo sforzo passionale e temerario della razza che seppe realizzare l’indipendenza italiana, e faremo ciò senza l’eccitante alcool delle bandiere spiegate e delle rosse
fanfare, noi, poeti ed artisti; senza ricorrere a nuovi sistemi politici, e solo spargendo il fuoco di un entusiasmo inestinguibile in questa Italia che non deve cadere nelle mani di scettici e d’ironici, solo elettrizzando di un coraggio accanito questa Italia che appartiene ai combattenti!
Voi mi direte, seguendo gl’insegnamenti di Giorgio Sorel, che nulla è più pericoloso degli intellettuali per gl’interessi del proletariato rivoluzionario. Ed avrete ragione, poichè oggi intellettualità e cultura sono sinonimi di rapacità egoistica e di oscurantismo retrogrado.
Ma noi artisti non siamo i così detti intellettuali. Siamo soprattutto dei cuori palpitanti, dei fasci di nervi in vibrazione, degli istintivi, degli esseri governati solo dalla divina, ubriacante intuizione, e crediamo di essere, o siamo, tutti accesi del così detto fuoco sacro.
Abbiamo attraversato, senza fermarci, le catacombe dell’erudizione pedantesca; sappiamo quel tanto che basta per camminare, senza inciampare, e non inciamperemmo mai, anche se fossimo meno colti, poichè siamo dotati del sicuro fiuto della gioventù.
Alla gioventù noi accordiamo tutti i diritti e tutte le autorità, che neghiamo e vogliamo strappare brutalmente ai vecchi, ai moribondi ed ai morti.
Il Futurismo proclama così il necessario intervento degli artisti nelle cose pubbliche, per fare finalmente del governo un’arte disinteressata, al posto di quello che è ora una pedantesca scienza del furto.
Ma vi sento già mormorare della nostra inesperienza tecnica.
Eh! via!… non dimenticate che la razza italiana non sa produrre, in realtà, che dei grandi artisti e dei grandi poeti, ai quali certo non può essere impossibile l’istruirsi rapidamente, in pochi mesi d’osservazione, della meccanica parlamentare.
Io credo che il parlamentarismo, istituzione politica fallace e caduca, sia destinata fatalmente a perire. Io credo, che la politica italiana vedrà inevitabilmente precipitare la sua agonia, se non si piegherà a sostituire degli artisti – ingegni creatori – alla classe degli avvocati – ingegni dissolventi e palliativi – che l’hanno monopolizzato fino ad ora, manifestandovi oltre misura la loro funzione specifica, che consiste nello sfruttar bene e nel vendere il loro cervello e la loro parola.
Quindi, è specialmente dallo spirito avvocatesco, che noi vogliamo liberare la vita politica italiana. Ed è perciò che noi combattiamo energicamente gli avvocati del popolo, e in genere tutti gl’intermediari, i mezzani, i mediatori, tutti i grandi cuochi della felicità universale, particolarmente nemici di ogni violenza, ignobili maestri di diplomazia bassa, che noi riputiamo dannosi ed ingombranti nell’ascensione della maggiore libertà.
La loro presenza è diventata ormai goffa e ridicola in questa nostra vita ferrea e convulsa, ebbra di una frenetica ambizione e sulla quale giganteggia la nuova e tremenda divinità del pericolo.
Le forze oscure della Natura, prese nei lacci e nelle reti delle formole chimiche e meccaniche, e così asservite all’uomo, si vendicano terribilmente, balzandoci alla gola con la selvaggia irruenza dei cani arrabbiati.
Ben lo sapete, voi, operai degli arsenali, fuochisti dei transatlantici, marinai dei sottomarini, operai delle acciaierie e dei gasometri!
Mi sembra inutile dimostrarvi qui come, per lo sviluppo fulmineo della scienza, per la prodigiosa conquista delle velocità terrestri ed aeree, la vita essendo diventata sempre più tragica, e l’ideale di una serenità georgica essendo ormai definitivamente tramontato, convenga oggi che il cuore dell’uomo si famigliarizzi sempre più col pericolo immanente, per modo che le generazioni future possano essere ringagliardite da un vero amore di questo pericolo.
Il progresso umano esige sempre più delle anime da giocatori d’azzardo, dei fiuti da segugi, delle intuizioni temerarie da aviatori, delle sensibilità medianiche, delle divinazioni da poeta.

La complessità psichica del mondo è singolarmente aumentata per l’accumularsi delle esperienze fornite dalla storia, per la corrosione continua e il controllo eccitante che la stampa va
operando.
La febbrilità e l’instabilità delle razze sono divenute tali da sconvolgere ogni calcolo di probabilità storica.
Potrei anche parlarvi del logorio che hanno subìto tutte le vecchie formole sintetiche che influenzavano il movimento dei popoli, tutte le ricette e le panacee di sicura e immediata felicità. È ormai profonda in noi la convinzione che tutto si complica, che ogni semplificazione ideologica, dimostrativa o amministrativa è illusoria, e che l’ordine assoluto in materia
politica o sociale è assurdo.
Siamo giunti alla necessità di accettare in noi e fuori di noi la convivenza degli elementi più contradittorî.
Il popolo non potrà per nessuna forza, per nessuna volontà,
rinunciare mai alle sue libertà conquistate. Rinunciarvi, sarebbe come volersi servire della diligenza, ora che le reti ferroviarie hanno rimpicciolito e offerto il mondo ad ogni singolo cittadino,
come un giocattolo da palleggiare e da osservare.
Queste libertà individuali, che ingigantiscono nel loro sviluppo verso una possibile e desiderabile anarchia, debbono coesistere con un principio di autorità. Questo, per meglio salvaguardare le singole libertà, tende a distruggerle.

Vi è dunque una convivenza ed insieme una lotta salutare di principî ostili, come fra i diversi elementi che compongono il sangue dell’uomo. Cosicchè l’Italia dovrà sempre più attivare in sè il doppio fervore di una possibile rivoluzione proletaria e di una possibile guerra.
Tra il popolo, sinonimo di libertà crescente, e il governo, sinonimo di autorità decrescente, corrono in certo modo i rapporti, amichevoli e antagonistici insieme, che corrono tra il
proprietario e gl’inquilini di una casa.
Vi è infatti qualche cosa di simile tra una rivoluzione contro un governo colpevole di tirannide o d’incapacità, e il brusco trasloco di un inquilino, quando il suo padrone di casa rifiuta di fare le riparazioni necessarie contro le invasioni della pioggia, del vento e del fulmine, o quando egli non seppe difendere i proprî inquilini dai ladri notturni.
In quest’ultimo caso, come l’inquilino scinde il contratto, così il popolo fa la rivoluzione.
Bisogna che ogni italiano concepisca nettamente il fondersi di queste due idee: rivoluzione e guerra, distruggendo la stupida rettorica paurosa che le avvolge di orrore, esaltando in sè e fuori di sè l’idea di lotta e il disprezzo della vita, che solo può sublimare l’uomo, dando il massimo splendore e il massimo valore ad ogni attimo vissuto.
Io credo infatti che non importasse salvare la vita di Francisco Ferrer, chiusa da una veglia e da una morte eroiche, che hanno generato la volontà liberatrice di Canalejas, – mentre era
necessario impedire ad ogni costo un nuovo trionfo dell’oscurantismo clericale.
Disgraziatamente, la scuola, inquinata dalla morale cristiana, che esige lo stupido perdono delle offese, degenerato in vigliaccheria sistematica, lavora assiduamente alla evirazione della razza.
Null’altro s’insegna oggi in Italia, se non l’obbedienza supina, e la paura davanti al dolore fisico, e questo avviene con la tremante collaborazione delle madri italiane, le quali certo non son fatte per preparare dei soldati, nè dei rivoluzionari.

Noi futuristi esaltiamo dovunque, con la parola e con l’esempio, la necessità di un’attivissima propaganda di coraggio personale.
Vogliamo che uno spirito di rivolta e di guerra circoli come un sangue impetuoso nella gioventù italiana.
La nazione, che ha origine violenta, non può che essere rafforzata da questa doppia circolazione irruente di sangue che mantenendo l’elasticità delle arterie amministratrici, rinvigorisce il senso di responsabilità nella testa e nei centri governativi.
Noi crediamo ormai infantile quel concetto dell’evoluzione rotativa storica per la quale, secondo il sogno di molti imperialisti miopi, si dovrebbe fatalmente ritornare a una forma di governo
tirannico e ad una supina schiavitù popolare.
Ci raffiguriamo invece l’evoluzione futura dell’umanità come il movimento oscillante ed irregolare di una di quelle pittoresche ruote di legno munite di secchielli e mosse da un quadrupede bendato, che, in Oriente, estraggono l’acqua per l’irrigazione degli orti.
Per la costruzione primitiva della ruota e dei secchielli, l’acqua estratta è mista con della sabbia, la quale, riversandosi anch’essa, alza di continuo il livello del suolo circostante, di maniera che il
congegno stesso deve essere di continuo e sempre più innalzato.
Vi sarà sempre, nel rivolgersi della storia, insieme con la monotona acqua degli avvenimenti una sempre crescente sabbia fine di libertà.
Gl’imperialisti sembrano ignorare, per esempio, la novità assoluta e l’importanza eccezionale di quello che a me sembra l’avvenimento più importante di questi ultimi cent’anni: voglio dire la libertà di sciopero, conquistata meccanicamente dal proletariato; libertà tanto più forte inquantochè non riconosciuta dalla legge; libertà che nessun Napoleone potrebbe abolire.
Questa libertà non è che un risultato logico ma inaspettato della già lontana Rivoluzione francese, la quale, come tutte le rivoluzioni registrate dalla storia, produsse effetti lentamente fecondatori paragonabili a quelli delle periodiche inondazioni del Nilo.
L’autorità dello stato non può più essere concepita come un freno alle aspirazioni libertarie del popolo. Noi crediamo invece che lo spirito rivoluzionario del popolo debba frenare – o meglio –
corrodere lentamente l’autorità dello stato e il suo spirito conservatore, indizio di vecchiezza e di paralisi progressiva.
Rammentatevi della celebre frase di Clemenceau: «Io sono il primo Poliziotto di Francia». Con questa espressione che sembrò un motto di spirito, il grande ministro espresse esattamente la necessità che costringe i socialisti – spinti al potere dalla forza ascensionale del proletariato, quali esponenti e difensori della libertà – a trasformarsi immediatamente in ferocissimi reazionari.
Un dilemma infatti si presenta a costoro: o diventare un coperchio pesantissimo e soffocante sul ribollire della caldaia popolare, o prestarsi ad essere lanciati via dalla traboccante veemenza di questa furia accesa.
È sottinteso, nondimeno che simili coperchi non possono resistere a lungo. I radico-socialisti Clemenceau e Briand, divenuti i poliziotti barcollanti e feroci del movimento rivoluzionario francese dànno una nuova prova della convivenza tumultuosa di quegli elementi contradittorî di cui vi ho già parlato.
Da tutto ciò, è ovvio concludere che la violenza è oggidì divenuta la miglior condizione di vera salute per un popolo. L’ordine, il pacifismo, la moderazione, lo spirito diplomatico e riformista, non ne sono forse l’arteriosclerosi, la vecchiaia e la morte?
È soltanto con la violenza, che si può ricondurre l’idea di giustizia, ormai sciupata, non a quella fatale che consiste nel diritto del più forte, ma a quella igienica, sana, che consiste nel diritto del più coraggioso, e del più disinteressato, cioè all’eroismo.
Partendo da questo principio, io posso soddisfare subito quelli fra voi che più sono assillati dal desiderio o dal bisogno di una precisione dogmatica, collo stabilire che il bene è per noi, tutto ciò che accresce e sviluppa le attività fisiche, intellettuali e istintive dell’uomo, spingendolo al suo massimo splendore, mentre il male è tutto ciò che diminuisce e interrompe lo svilupparsi di queste attività.
Come il pacifismo e la paura della guerra hanno creata la nostra dolorosa schiavitù politica, così l’orrore della violenza hanno fatto del cittadino italiano un fantoccio ridicolo, malmenato dagli azzeccagarbugli, che risponde a un ceffone con una querela o con un ricatto.
E qui tocchiamo uno di quei facili conflitti fra l’autorità ordinatrice e la libertà individuale, la quale deve sempre finire col vincere, per la legge ascensionale verso l’anarchia, che governa l’umanità.
Il principio delle sanzioni giuridiche in materia di offese personali distrugge il senso importantissimo della dignità fisiologica, intimamente legata a quella psichica, e canalizza tutte le attività umane verso l’astuzia sfruttatrice, l’usura, la taccagneria e la divinità tirannica del denaro.
Siamo ricaduti così, per altra via, nello stagno della vita nostra italiana, le cui rive sono custodite dagli sterpi intricati delle leggi poliziesche e dalle siepi burocratiche, destinate soltanto a stancare e a dilaniare ogni istinto profondamente umano e ogni legittima ribellione.

Per giungere a questo agognato rinnovamento sociale e politico del nostro Paese, noi dobbiamo forzatamente vincere degli ostacoli, i quali, a prima vista, sembrano insormontabili, poichè li portiamo in noi stessi sotto forma di elementi caratteristici della nostra razza.
Voglio parlare del personalismo, dell’utilitarismo clericale, della ipersensualità e dell’ironia mordace e demolitrice.
Chiamo personalismo quell’abitudine intellettuale che consiste nel sottomettere qualsiasi giudizio a delle considerazioni, a delle simpatie o a delle antipatie assolutamente personali. – Chiamo personalismo l’indifferenza, o meglio il disprezzo che ogni italiano nutre per le pure idee, combattendole soltanto quando siano sostenute da un nemico, amandole soltanto quando siano
sostenute da un amico.
Bisogna combattere questo vizio gravissimo, anzitutto trasformando il nostro mefitico sistema scolastico, inteso solo a premiare la bassa cortigianeria degli allievi sgobboni ed imbecilli, che, leccando quotidianamente la vanità di un professore finiscono coll’assorbirne la tronfia e dogmatica imbecillità.
Noi futuristi, che accordiamo ai giovani tutti i diritti e tutte le autorità, vorremmo che nelle scuole fossero invece incoraggiati e premiati quegli studenti che manifestano fin dai primi anni, di
avere delle idee personali e una maniera spiccata di giudicare uomini e libri.
La libera intuizione, cioè la facoltà di avere e di creare delle idee nuove: ecco ciò che noi vogliamo esaltare! Ed è per questo, che noi proscriviamo dalla scuola il prete, il quale, non potendo più oggi preparare delle fedi nell’assenza di un vero sentimento religioso, si accontenta di rammollire e di abbassare le anime, creando quel fenomeno di utilitarismo cretino e pauroso che si
chiama il Clericalismo.
Italiani! Conviene intensificare ed accendere ovunque una guerra accanita contro il clericalismo, partito politico, che non basandosi ormai più sul sentimento mistico e pure avendo ormai perso l’obbiettivo del potere temporale minaccia, nei nostri figli, la nostra grandezza futura.
Utilitarismo pretino, paura quietista: ecco il brago in cui la nostra razza si avvoltola, coprendosi del fango dell’accidia e dell’ipersensualismo.
Quest’altro vizio italiano, anzi latino, si manifesta in mille modi, ed anzitutto nella tirannia dell’amore, che falcia le energie degli uomini di azione, nell’ossessione della conquista femminile, nell’ideale romantico della fedeltà e nella tendenza immonda alla più fatale e snervante lussuria.
Questa nefasta tendenza deve essere contrastata, nella scuola e fuori, mediante un continuo e sapiente sviluppo degli sports violenti, della scherma, del nuoto, e particolarmente della ginnastica. Questa deve essere liberata dall’antico acrobatismo e dalla gesticolazione di parata: una ginnastica razionale, atta ad amplificare il torace, a dilatare i polmoni, a liberare il cuore, a contenere gli intestini, la riattivare la circolazione del sangue, ad aumentare l’ematosi, a fortificare i legamenti articolari, e a tonificare i muscoli, per la formazione di un corpo d’uomo bello, svelto, forte e resistente, che sappia pensare, volere ed atterrare uomini, idee e cose con uguale disinvoltura.

Noi futuristi, convinti dell’influenza che l’Arte esercita su tutte le attività di un popolo, vogliamo purificarla dal sentimentalismo, dalla erotomania d’annunziana e dal dongiovanismo, creando un’arte che glorifichi la forza e la libertà individuale, le vittorie della scienza e il dominio crescente delle forze oscure della natura.
Sappiamo infatti che il romanticismo voluttuoso esagera l’importanza dell’amore nella vita nostra.
La donna italiana, madre dolcissima, ma coltivatrice di viltà nei propri figli, quando non sia semplicemente dominata dal prete o dal desiderio assiduo di un lusso sfarzoso – diventa un nemico
quasi invincibile e una barriera insormontabile, in tutte le grandi fiammate guerresche o rivoluzionarie.
Il nostro ipersensualismo genera non solo questa esagerata importanza della donna unicamente voluttuaria e ingombrante, ma anche ciò che ne è una conseguenza: la mania del lusso appariscente e delle grandi agiatezze domestiche.
Ahimè! talvolta basta la preoccupazione di un buon pranzo, o di un cappello piumato per la signora, o di un bel tappeto da fare ammirare agl’invitati, talvolta basta – dicevo – una preoccupazione di questo genere, a far deviare un uomo politico italiano dalla sua rotta disinteressata, o a troncare un programma di eroismo e di sacrificio.
Abbiamo visto recentemente, con nostro grande dolore, uomini dagl’ideali altissimi e violenti subire a tal punto la snervante atmosfera di serenità coniugale, da rinunciare totalmente a qualsiasi audacia direttiva, per sprofondarsi scetticamente in una comoda poltrona – coltissimi fra i troppo amati, inutili ed amici libri – ed accogliere il nostro irrompere entusiastico col sorriso della più facile e scoraggiante ironia demolitrice.
Questa facile e scoraggiante ironia demolitrice, ecco il quarto vizio grave, profondamente italiano, dal quale deriva un disastroso misoneismo, opposto ad ogni arditezza, ad ogni sano ottimismo eccitatore; ecco il veleno tragico e gaio che inquina purtroppo la parte migliore d’Italia, voglio dire le popolazioni meridionali, le più ricche d’immaginazione costruttrice e di divinazione geniale.
È questa ironia, fatta di epicureismo, di spirito caustico, e di spensieratezza, che in un tramonto color di fucina, 12 anni or sono, davanti al Cimitero monumentale di Milano, cadenzava stupidamente, con un ritmo allegro di baldoria e di danza il ritorno di una massa rivoluzionaria che aveva accompagnata la bara sinistra di un operaio ucciso in un grave conflitto con le truppe.
Aveva seguito anch’io quella nera marea umana, schiumosa di faccie livide, su cui sobbalzava, come un funebre canotto, la bara, che i portatori curvi rendevano stranamente gambuta.
Sopra, si gonfiavano delle bandiere rosse, col movimento acceso e il respiro di altrettanti mantici enormi.
Fiamme di torce, come stracci di miseria sanguinante, oratori riformisti chini con la fiòcina per infilzare il viscido polpo del mezzo-termine; discorsi di una stomachevole moderazione, tali da far cadere per la noia le stelle e pel disgusto la luna, come un fulgido sputacchio!
Che schifo! Eravamo sommersi da un diluvio di consigli stupidamente paterni, ed era ben giusto che dopo una simile immonda commedia, la folla se ne ritornasse in città, verso il desinare, con ritmo di danza, cantando l’inno dei lavoratori, per accompagnare un secondo feretro: non più quello di un operaio ucciso, ma quello della Rivoluzione!
Ironia! Ironia! Vecchia ironia italiana!… Ecco la nostra nemica, da distruggere, da calpestare, a forza di entusiasmo, a forza di temerità, a forza di ottimismo, anche artificiali!
Operai! Guardatevi dall’ironia scettica ed egoista, vi liquefa il cuore nel giorno della giusta sommossa, e crea in voi quel vergognoso fenomeno che è il pànico dello squillo!
Quante volte, nei dieci anni di vita milanese che io ho condotto studiando quotidianamente il flusso e riflusso del socialismo italiano, leggendo attentamente ogni comizio come il più interessante e doloroso dei libri, quante volte ho arrossito, come italiano… ve lo ripeto: come italiano, al vedere delle ingenti masse operaie, agitate dalle più legittime rivendicazioni e da un magnifico desiderio di maggior libertà, delle ingenti masse di popolo, dico, prese fulmineamente dal più insensato spavento collettivo, al risuonare delle quattro note insolenti dello squillo poliziesco!
Una mandra in fuga… Dorsi curvi e folli, gambe levate, davanti al trotto sgangherato di una cavalleria incapace di correre sul selciato.
Naturalmente, gli oratori che riformisticamente avevano tinto di rosa, non di rosso, la folla, erano spariti… Dove e perchè? Senza dubbio per qualche loro improvvisa rivoluzione
intestinale!…
Ma una rossa visione mi si affaccia alla mente: una visione che conforta il mio sangue futurista…
Vedo un crepuscolo fumoso di capitale, su una strada viscida di pioggia e già chiazzata e febbricitante di riflessi…
Nella grande rete dei fili tramviari e telefonici, mille luci arrabbiate azzannano la polpa dell’ombra!… Pallore famelico delle case!… Oscuri profili irritati!… Laggiù, nelle vie laterali, ove furono fracassati tutti i lampioni, tenebre, tenebre massiccie, rotolate giù da chi sa qual cielo distrutto!…
Ad uno sbocco di via, una folla compatta, nerissima… È formata, quella folla, dalle vostre donne e dai vostri figli: braccia intrecciate di notturna foresta africana; tutti incastrati l’uno fra gli altri come i mattoni di una muraglia!
Voi, uomini, vi schiererete davanti alle vostre donne, in quella tragica jungla di pietra e di ferro, sotto i rotondi frutti elettrici, esplosi, lattescenti, bianchissimi, e caricherete tranquillamente le
vostre carabine, per le belve poliziesche.
Risuoneranno allora, improvvise e beffarde, le note dello squillo, funebre rasoiata attraverso la gola muta del silenzio…
Ed ecco il comando urlato: «Avanti!». Ma sento anche uno sghignazzamento formidabile rispondere a quello squillo, e la folla, pietrificata dal coraggio, gridare: «Gli italiani non fuggono! Pel sublime amor del pericolo, accettiamo una lotta sanguinosa sotto le stelle fulgidissime d’Italia, che c’impongono di non indietreggiare!…».
Vedo un immane groviglio rosso: la mischia furibonda dei cavalli impennati, sotto un rovescio di tegole. Ben venga il macello!… Ce ne rallegreremo insieme, operai italiani, se avremo sopravvissuto… Ce ne rallegreremo, poichè null’altro sarà avvenuto; null’altro che un salutare colpo di bisturì nel gigantesco foruncolo della paura e del mediocrismo italiano!
Poichè, alla propaganda della vigliaccheria, noi opponiamo la propaganda del coraggio e dell’eroismo quotidiano…
Poichè, all’attuale estetica di fango monetato noi opponiamo – sia pure, sia pure! – una estetica di violenza e di sangue!

 

 

24.
Morale del pericolo: la libertà elastica senza carceri e carabinieri.

 

Non credo di essere eccessivamente ottimista nell’accordare la più ampia fiducia allo sviluppo crescente dell’intelligenza italiana.
L’intelligenza delle nostre masse politiche non è ancora giunta ma giungerà al nostro alto concetto futurista di libertà assoluta da imbrigliare o sciogliere secondo la mutevole urgenza degli avvenimenti e dei bisogni.
Queste masse proletarie si dividono in reazionarî cretini e in anarchici balordi. Degli arditi valorosi scatenati dall’orgoglio della vittoria e dal patriottismo sanguinosamente provato sui campi di battaglia dimostravano pochi giorni fa una splendida voglia di menar le mani e di andare all’assalto in piazza della Scala. Ma rivelavano anche pur troppo una tendenza a diventare dei carabinieri reazionari.
Il fenomeno è tipico: Chi dice «ardito» o «reparto d’assalto» dice anche: «slancio rivoluzionario fuori dalla disciplina, amore sfrenato d’ogni libertà, generosità, eroismo. L’ardito era un esplosivo più o meno bene incanalato che scoppiava efficacemente in faccia agli austriaci detentori d’ogni passatismo reazionario e d’ogni clericalume poliziesco. Fui perciò attristato dal vedere un ardito furente di odio slanciarsi con anima carabinieresca contro un cittadino che gridava: «W. l’anarchia!» con audacia d’ardito.
Mi direte che è questione d’intelligenza. È vero. Ma è specialmente questione di una qualità eminentemente futurista della intelligenza: l’Elasticità.
L’ardito che si slancia contro i carabinieri che gli vietano una dimostrazione o contro masse di sozzalisti antipatriottici dovrebbe con elastica intelligenza fermarsi ed abbracciare il cittadino isolato che osa, affrontando tutti i pericoli, lanciare un grido come quello di «W. l’anarchia!».
Nel settembre 1914 io fui imprigionato coi miei amici futuristi nell’enorme e terribile carcere di S. Vittore per avere organizzato e scatenato le due prime dimostrazioni per il nostro intervento
contro l’Austria.
Avevo dietro il muro di destra un giovane meccanico che aveva accoppato la sua amante ritornata un’ora in ritardo a casa.
Dietro il muro di sinistra un fabbricante di monete false. Questo era considerato da tutti come una persona importante, un forte, un quasi arrivato. Attraverso le inferriate e mediante la telegrafia delle nocche io comunicai con quasi tutti gli incarcerati. Sono uscito da San Vittore con una discreta esperienza in questa tragica materia. Non ammetto e considero assolutamente criminale il vantato diritto della società a chiudere e soffocare anime, polmoni e muscoli di individui fra enormi muraglie e dietro porte incrollabili. La società che incarcerava il falsificatore di monete, l’uccisore dell’amante e l’interventista prematuro, compiva tre delitti superiori non soltanto ai nostri tre delitti, ma a qualsiasi delitto umano. Lurido abuso di potere paragonabile all’uso della mazza ferrata sui feriti o gli svenuti.
I carceri sono delle infami trappole che presuppongono un bestialissimo Ordine-gatto accanito contro dei simpaticissimi e ingenui temperamenti-sorci. Tutto in omaggio alla vigliaccheria del cittadino il quale dovrebbe poter circolare nelle città come in un bagno tiepido portando a zonzo il suo corpo imbelle, i suoi muscoli flosci, il suo dorso privo d’intuizione, sotto lo sguardo paterno e protettore del carabiniere.
Ebbene, è tempo che i carceri e gli ergastoli, questi avanzi del medioevo, siano distrutti e rasi al suolo. Il cittadino deve mediante una educazione razionale dei muscoli e del coraggio conquistarsi una piena responsabilità fisiologica e morale che dal pensiero passi alla parola e dalla parola – se è necessario – allo schiaffo e al pugno per difendere il proprio diritto e moderare eventualmente l’abuso del diritto intorno a sè.
Quando tutti i cittadini saranno capaci di difendersi da una aggressione e di rintuzzare con un pugno bene assestato una villania o una ingiustizia, regnerà finalmente l’ordine elastico e l’elastica libertà senza carabinieri che deve regnare in una umanità superiore.
Propongo perciò che nelle scuole il tempo consacrato all’insegnamento classico del greco e latino sia in parte impiegato all’educazione fisica dell’adolescente. Formeremo così dei giovani muscolosi, agilissimi, coraggiosi, audaci, pronti alla decisione egualmente capaci di smontare un motore a scoppio, di tenere il libro mastro di una azienda commerciale, di guidare una automobile, di afferrare per la gola un borsaiolo e di schiaffeggiare un traditore.
Intelligenza pratica, istinto onnipresente, lucidità e prontezza di spirito, passione della vita, dei suoi pericoli e delle sue mutevoli avventure, ingegno improvvisatore, abilità e velocità nel risolvere tutti i problemi per ottenere i massimi frutti nel minor tempo possibile.
Non vedremo più dei giovani fiacchi, fragili portare languidamente a zonzo le loro gambe molli, nelle nostre città come in un bagno ammollente guardando le stelle impassibili lungo gli antichi fiumi della malinconia provinciale italiana.
Avremo dei cittadini sicuri della loro forza agile e della loro intelligenza coraggiosa, dei cittadini buoni, generosi e arditi che cammineranno speditamente, con libertà snodata, dominando e
guidando i commerci delle città futuriste. Vi saranno pochi impiegati e poche discussioni agli sportelli. Aboliti i preti, i carabinieri e le questure non vi saranno più risse, maldicenze,
moralismi e pessimismi cronici e vendette sotto le gioconde lune elettriche. La libertà assoluta che noi futuristi sognamo può e deve essere imbrigliata in circostanze tipiche.
Per giungere alla nostra meravigliosa vittoria bisognava assolutamente imporsi le più ferree discipline militari. Dovendo necessariamente fucilare sul posto un soldato che abbandonava la linea si doveva anche fucilare sul posto un disfattista che predicava la diserzione nelle retrovie e nelle città.
Vestendo l’uniforme militare un ingegno rivoluzionario come il mio accettava per 4 anni la più matematica obbedienza a dei superiori talvolta mediocri, talvolta indegni di rispetto.
Con la medesima elasticità futurista, oggi a vittoria compiuta, a nemico disfatto, siano concesse tutte le amnistie e aperti tutti i carceri per i detenuti politici.

 

 

25.
Eroismo dinamico e antigloria.

 

Le nobiltà medioevali sono in decadenza, hanno perduto la vernice rossa del sangue versato dai padri.
È assurdo dunque riconoscere una nobiltà ereditaria al sangue eroico versato nella conflagrazione, poichè bisogna precisamente guarire questo vizio tipico del cervello umano: fare il minor sforzo.
Io considero l’eroe d’oggi figlio e padre di sè stesso. Il suo domani non può essere nobilitato dal suo oggi. Il figlio dell’eroe non può essere titolato col sangue paterno poichè deve titolarsi col proprio slancio eroico.
Superare, superarsi, o non essere.
Bisogna impedire che l’eroismo divenga il bottino dei vili, il ricco terreno da sfruttare, l’uniforme elegantissima. Bisogna la libertà di pensiero da ogni coccarda ereditata e fare impazzire la
propria generosità eroica.
La vittoria del Grappa-Piave (giugno) ha cancellato Caporetto.
Il Tagliamento gloriosissimo ha cancellato la vittoria del Grappa-Piave.
Bisogna cancellare la nostra fulminea vittoria con un dopo guerra più potente e più eroicamente glorioso.

Cuore di manovra e non cuore da trincea. Truppe celeri del genio Futurismo! Arditismo!

 

 

26.
Gli Arditi, avanguardia della Nazione

(Discorso di Marinetti a 300 Ufficiali della 2a Divisione
d’Assalto).

 

Cari Arditi d’Italia!
Io non ho l’onore di far parte del corpo glorioso degli Arditi, ma spero di aver presto il piacere di combattere, come comandante di un’autoblindata, al vostro fianco alla punta estrema, tagliente, dinamica dell’esercito italiano oltre Piave. Ho il diritto di parlarvi poichè fui, dal principio della guerra, combattente in prima linea sempre volontario, come voi, volontario ciclista, volontario bombardiere, volontario automitragliere.
Come voi a Vertoiba, a Gorizia, a Plava, a Selo, a Nervesa. Ma voi che siete uomini d’azione, poche chiacchiere, molti fatti, una bestemmia, un bicchier di vino, un pernacchio al nemico, tascapane pieno di bombe e pugnale brandito, mi direte che in genere le parole e i discorsi poco vi interessano.
Avete ragione. Vi consiglio di non ascoltare i discorsi dei pedanti, degli accademici, dei professorali, che vengono dalle città a parlarvi di coraggio. Non si insegna il coraggio a un ardito.
E a voi, tenenti, capitani e comandanti di reparti d’assalto, non s’insegna nulla poichè siete non soltanto arditi, ma italiani, cioè intelligentissimi.
Ero stato invitato a parlare ai soldati arditi, a loro dunque mi rivolgo pel tramite vostro.
Vi prego di infondere nell’animo dei vostri soldati la convinzione che non vi è più alto onore di quello d’essere un ardito d’Italia.
Non sono uno stratega nè un tattico. Vi parlo da appassionato infiammatore della gioventù.
Sono futurista, cioè un patriota rivoluzionario. Intendiamoci, rivoluzionario non ha nulla di comune con Lenin, Serrati, Lazzari, Treves, ecc. Il nostro rivoluzionarismo futurista adora tanto l’Italia da voler ad ogni costo svecchiarla, pulirla, sgomberarla dai pedanti, dai preti, dai vigliacchi, renderla più giovane, più forte, più grande, più alta, più veloce, più intelligente, più progredita.
Questo patriottismo non ha nulla a che fare col patriottismo pangermanico. Cretino questo poiché un popolo inferiore come il tedesco, privo d’ingegno e d’elasticità geniale, non può pretendere
nessuna egemonia.
Vi fu una vasta, tentacolare infiltrazione germanica di prodotti commerciali. Il mondo fu avvelenato di lue tedesca. Vollero aggiungervi il sigillo della vittoria militare. Voi lo trasformate in un bollo rosso da macello sulle innumerevoli loro pecore militarizzate.
Voi siete la parte migliore della razza italiana. Ve lo dimostrerò enumerando le ragioni e gli impulsi che v’hanno spinto ad entrare nei reparti d’assalto.

  1. Siete diventati arditi per un amore sfrenato della nostra divina Italia. Se avessi davanti a me i vostri soldati, io farei qui la glorificazione della nostra meravigliosa penisola, riassunto di tutte le bellezze del mondo. Direi ai napoletani che la curva languida del golfo continua nella linea delle belle donne per formare l’agile calice sonoro d’una bella voce italiana, tornito dalla più soave atmosfera e dalla luce più ricca.

    Per quel golfo e per l’isola di Capri, si può ben lanciarsi all’assalto e anche morire.

    Direi agli arditi siciliani ch’essi si battono per la loro isola, sintesi di tutti gli ardori e di tutti gli splendori dell’Africa e della Spagna. Direi agli arditi sardi che il loro eroismo stupendo sarà ricompensato da altrettanto denaro, da tutto il denaro che si dovrà dare per il risanamento completo della loro isola forte ma sventurata.

    Direi agli arditi veneti, emiliani e lombardi che le loro feconde pianure predisposte a tutte le velocità commerciali e industriali meritano il massimo eroismo contro l’invasore rapace e imbecille.

    Direi a tutti i soldati arditi:

    Siate orgogliosi di sentirvi italiani, nati proprio in questo periodo della storia d’Italia e destinati dunque a risolvere col sangue d’un colpo solo tutti gli enormi problemi del nostro avvenire italiano. Privilegio unico: salvare l’Italia, ingigantirla.

    A voi ufficiali, io dico:

    Qual’è l’italiano che, rileggendo gli infami bollettini tedeschi pubblicati dopo Caporetto, non senta il dovere di correggerli fulmineamente, con pugnalate, sulla pelle dei generali tedeschi?

  2. Voi siete diventati arditi per un amore sfrenato della libertà. Lo conciliate con la disciplina necessaria ad ogni esercito che voglia vincere.

    Ho constatato che la disciplina impostavi dai vostri capi è una bella disciplina elastica che non soffoca, che non può soffocare il vostro gagliardo individualismo impetuoso.

    Ho visto con piacere tutti gli arditi giocondi e spensierati con le loro violente facce in tumulto scattare meglio dei fanti per salutare un ufficiale.

    L’ufficiale merita sovente l’amore sviscerato dei suoi soldati, ma ciò non avviene sempre; ricordatevi che il saluto militare è sempre rivolto alla presenza invisibile di questa madre unica:

    l’Italia.

  3. Siete diventati arditi per amore di novità, spirito novatore, spirito rivoluzionario, spirito futurista.

  4. Siete diventati arditi per amore della violenza, della guerra e del bel gesto eroico.

    Schiaffi in tempo di pace ai vigliacchi, alle carogne, ai traditori. Pugnalate e bombe a mano in guerra ai tedeschi.

  5. Siete diventati arditi per desiderio di mafia e di spavalderia giovanile.

    Il colletto aperto preludia ad uno scamiciamento audace per meglio fare ai pugni o per gettarsi in acqua al salvataggio d’un uomo che annega.

    Collo libero dell’uomo forte e creatore. Collo svincolato dalle cravatte idiote. Collo atletico che fa scoppiare il colletto della società.

    Bella mafia trionfante degli arditi d’Italia che amano le belle donne e le conquistano come trincee con un gesto eroico. Non preoccupatevi delle smorfie e dei sussieghi degl’imboscati e degli avariati che nei caffè si ritraggono ironicamente al vostro passaggio. Questi vili che hanno per unico sangue il brodo dei loro calzoni riconoscono intimamente la vostra potenza e il vostro valore. Ma vi temono, non hanno la forza di odiarvi, tentano di svalutarvi. Non vi riesciranno. Dicono che molti di voi non hanno più nulla da perdere e perciò osano tutto.

    Io rispondo loro che essi hanno tutto da conservare ma tutto perderanno. Siete voi i primi, i più alti, i più degni. Siete voi i padroni della nuova Italia. Io amo la vostra disinvoltura insolente.

    Si hanno tutti i diritti quando si sgozza un austriaco.

  6. Voi siete diventati arditi per amore di improvvisazione e di praticità. Di praticità novatrice contro il metodismo pedante e il preparazionismo teutonico.

    Rifiutate quasi sempre l’aiuto dell’artiglieria. Presto, senza sparare un colpo di cannone, utilizzando sempre la sorpresa, voi partite, sfondate, entrate, sorpassate. Pochi prigionieri, molti pugnalati e il resto giù dalla cima conquistata a calci.

    L’ultima grande vittoria è vostra. L’avete preparata mirabilmente, con molti colpi di mano, tutti fulminei, tutti fruttiferi.

    Venne la grande tronfia offensiva austriaca della fame, l’offensiva dalle cinquecentomila bocche spalancate e l’avete accolta a pernacchi dando loro da mangiare tutti i vostri pugnali.

    L’indomani, a Montecitorio, i ministri si presentarono vestiti di gloria rossa. Col vostro sangue quei vestiti erano colorati.

    Voi non siete soltanto i migliori fanti d’Italia. Non siete i nuovi garibaldini. Non siete truppe d’assalto alla tedesca. Queste sono ferreamente condannate al sacrificio. Voi siete la nuova generazione d’Italia, temeraria e geniale, che prepara il grandissimo futuro d’Italia.

In questa vasta conflagrazione che costringe popoli e uomini a dare il massimo rendimento di tutte le loro forze e a superare miracolosamente queste forze stesse, vi sono fatalmente delle stanchezze, vi sono fatalmente dei combattenti stanchi. Voi siete gl’instancabili, i miracoli viventi di muscoli e coraggio, i divini futuristi della nuova Italia.

 

 

 

Il 1° gennaio 1919, per iniziativa del futurista Mario Carli, capitano nel 18° Reparto d’Assalto, venne fondata a Roma l’Associazione fra gli Arditi d’Italia, appoggiata dal giornale Roma Futurista, organo del Partito Futurista.
Subito dopo, per iniziativa del capitano Ferruccio Vecchi venne fondata la Sezione Milanese dell’Associazione fra gli Arditi, presso la Direzione del Movimento Futurista, Corso
Venezia 61, Milano.

 

 

 

 

 

[1] Nell’originale “gridiano”. [Nota per l’edizione elettronica Manuzio]

[2] Nell’originale “queto-vivere”. [Nota per l’edizione elettronica Manuzio]

[3] Nell’originale “Invee”. [Nota per l’edizione elettronica Manuzio]


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Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.

OSSERVATORIO DECODE

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Carlo Carrà

Collettivo Wu Ming

Anno di pubblicazione / 1919

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