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Intervista a William Gibson

Susanna Luppi7 Agosto 2018

Intervista a William Gibson condotta da Marco Giovannini — inviato di Panorama — e presentata nei contenuti speciali dell’antologia La notte che bruciammo Chrome, edizione URANIA 1989.

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Neuromancer comincia con le parole “il cielo sul porto aveva il colore della televisione, sintonizzata su un canale morto” e prosegue con una sarabanda di avventure in un mondo tutto computerizzato. Più che da un fan, sembra scritto da un drogato di telematica. È veramente così?

 

Risposta: Tutto il contrario. Per quindici anni, da quando ci siamo sposati, io e mia moglie, non abbiamo avuto la televisione. Non è stato uno snobismo. Avevamo una gran paura di finire a far la vita di due pensionati che passano tutte le sere in casa a guardare la tv. Inoltre a me piace molto il cinema, ma mi piace sceglierlo. Cioè vedere quel film, e non un altro, uscire per andarlo a vedere. Oggi ho la televisione, eccola lì. Ma l’ho comprata per via del videoregistratore. Così è possibile avere il cinema in casa, ma rimanere attivo, scegliendo il film da vedere.

 

D: E col computer come andiamo? Lo usa soltanto per scrivere?

R: Fino a Neuromancer ho sempre usato una normale macchina per scrivere, nemmeno elettrica: una Hermes del 1927, anche un po’ malandata. Il tasto della lettera “h”, per esempio, aveva perso la parte superiore, quella specie di stanghetta per cui ogni “h” diventava una “n”. Solo nel 1985 ho comprato un computer, cominciando anch’io, come ha commentato un mio amico, a vivere nel XX secolo. È un 64 K Apple 11C. Ma sto ancora imparando a usarlo. Ci ho scritto solo alcuni scenari di base per Mona Lisa Overdrive, facendomi aiutare da un tecnico costantemente a mia disposizione. È troppo complicato e io sono troppo pigro. Non sono nemmeno riuscito mai a usare il videogioco neuromancer tratto dal mio romanzo con la musica dei Devo. Insomma per usare il computer, ho bisogno di aiuto. E io amo avere dei collaboratori, ma proprio per questo speravo di trovarne uno bell’e pronto nel computer.

 

D: Lei è il nuovo eroe della cultura pop americana. L’ultimo cult-writer. Come ci si sente in questi panni?

R: Molto a disagio: quando mi guardo allo specchio mi è difficile vedere uno scrittore di culto. Sono sempre stato affascinato dal meccanismo per cui gente comune diventa cult-writer. Anch’io, come tutti, ho avuto ed ho i miei idoli letterari. William Borroughs, per esempio, o J. C. Ballard, o Thomas Pynchon. Li conosce?

 

D: Be’, tutti, meno Pynchon.

R: È il più misterioso. Non mi stupisce che non sia mai stato pubblicato in Italia, il suo linguaggio creerebbe difficoltà quasi insormontabili ai traduttori. Nessuno sa chi sia, né dove viva. Non dà mai interviste e non esistono sue foto. Anzi no, ce n’è una, sempre la stessa, ma è dei tempi della scuola. Una volta ho conosciuto un tizio che lo aveva incontrato brevissimamente a un party di Natale a Berkley, in California, ma non se n’era accorto. È una storia strana e divertente. A quel tempo quel tizio non sapeva chi diavolo fosse Pynchon, non aveva mai letto niente di suo. Solo alla fine del party gli altri ospiti gli hanno spiegato chi era ed erano fieri e orgogliosi del fatto che lui fosse stato là. Questa storia la prendo come una parabola, e la morale è questa: essere caldo-writer è spaventoso, puoi causare molte delusioni alla gente. Una volta ero a San Francisco, allaCity Light Bookstore, la libreria di Ferlinghetti, per presentare uno dei miei libri. Arriva un ragazzo vestito di pelle a catene col mio romanzo in mano. Mi guarda e mi chiede se io sono veramente Gibson. Non ho mai dimenticato quell’occhiata mista di delusione e disprezzo.

 

D: Ma anche lei si sente così diverso da quello che scrive?

R: Sarà che quando ero giovane ho incontrato un sacco di scrittori di fantascienza e ho visto che spesso non erano così belli, così interessanti come i libri che scrivevano, oppure viceversa che sotto il loro aspetto normalissimo di impiegati delle poste erano assolutamente affascinanti, che ho smesso da tempo di associare aspetto fisico con pagine piene di parole.

 

D: Mettiamola così, allora: William Gibson potrebbe essere un personaggio credibile nei romanzi di William Gibson?

R: Qualcuno di molto, ma molto marginale. Una specie di comparsa. Il personaggio con cui mi sono immedesimato di più è il venditore d’arte di Count Zero.

 

D: Possibile che nemmeno nei suoi sogni le capiti di immaginarsi di essere come Case, il protagonista di Neuromancer?

R: Sì, ma non per questioni d’azione.

Ammiro soprattutto le cose che sa fare col computer. Io ho ancora dei problemi a collegare il giradischi col registratore. Ma mi rendo conto che oggi è impossibile ignorare la presenza di questi “aggeggi”. Il computer è diventato l’orologio dei tempi moderni. E anche nelle storie è il computer più che il testo a muovere i personaggi, a determinarne le azioni, a indicare la direzione. C’è una storia buffa che riguarda Burning Chrome. Nella scena d’apertura mentre cercavo di lavorarci su, avevo in mente solo un’immagine molto scioccante, ma non sapevo dove sarebbe andata a parare la storia. In questa scena c’erano già tutti gli elementi che mi sarebbero stati utili più tardi per costruire il racconto, ma ho avuto bisogno di mettere bene a fuoco ogni particolare perché si innescasse una sorta di meccanismo fortuito che sviluppasse altre immagini: penso sia lo stesso “destino meccanico” che usa la gente che progetta al computer. Quando comincio a scrivere, in realtà, quasi sempre ho in mente solo un mondo molto astratto in cui poi introduco uno stile, un modo di muoversi dei personaggi, dei simboli di pura fantasia.

 

D: Questa attenzione allo scenario sembra il punto di partenza, quasi la base comune dello stile definito “Cyberpunk”. È così?

R: Io non amo le etichette. Il cosiddetto Cyberpunk è una tendenza, non una setta a cui aderire come una religione. A me interessa confrontare le idee con altri che scrivono di argomenti simili.

Quando comincio a lavorare, concepisco come prima cosa lo scenario: in Neuromancer già dalle prime righe si capisce tutto del luogo in cui si svolgerà l’azione, si assapora già il clima della vicenda. Quando ho finito di scriverlo sono andato al cinema:  ho visto Blade Runner e mi è venuto un colpo. Il mio romanzo era già sullo schermo! Se questo è potuto accadere, è proprio perché anche chi ha scritto Blade Runner è partito dallo scenario. E la Los Angeles del 2019 è uno scenario oltremodo stimolante.

 

D: E come mai allora lei non ci vive?

R: Preferisco frequentarla di tanto in tanto. Nei tre mesi in cui ho scritto la sceneggiatura di Alien III, partivo la mattina e tornavo la sera. Non mi piace, della gente che vive là, il fatto che sia impegnata a ricercare un’eccitazione continua. Non è che Los Angeles sia più proiettata nel futuro: è solo che chi ci vive non si cura del presente. A Vancouver, dove ho scelto di stare con mia moglie, la gente si occupa di problemi molto immediati. La città descritta in Neuromancer è in parte così, solo che il problema più immediato laggiù è la sopravvivenza. Comunque, per quanto io scriva di questo futuro, non è un posto dove mi piacerebbe vivere, così avvolto di ombre blu e nebbia. È anche ovvio che ci sia più violenza in città più grandi come Los Angeles,  dove è più facile essere depressi, e avere voglia di provare di tutto, dalle droghe in poi, pur di uscirne.

 

D: E di New York che pensa?

R: Penso solo che New York è come un computer world in cui non puoi smettere un minuto di essere presente a te stesso, se vuoi mantenere una sopravvivenza psicologica. E a me piace essere coinvolto, ma non doverlo essere in continuazione. A New York, non puoi esistere se non sei eternamente busy. Molto meglio andarci un paio di volte l’anno, a dare un’occhiata, come un giapponese. Anzi, se posso fare una proposta, l’ideale sarebbe cedere in prestito New York ai giapponesi per dieci anni e farcela ridare tutta pulita e ordinata come Tokyo.

 

D: Cosa l’affascina di Tokyo?

R: È un mondo buffo, tutto così regolare. La città è molto interessante, ma si dovrebbe parlare di due città, una che dura fino al venerdì e un’altra diversa che appare quando il lavoro finisce. Non mi dispiacerebbe passarci un po’ di tempo, è stimolante. Ho scritto tre puntate di un serial ambientate a Tokyo per una rivista americana. Non era una rivista di fantascienza, ma non era nemmeno “People”: per pubblicare articoli su “People” avrei bisogno di un buon “traduttore”, perché è il mio linguaggio non è sufficientemente piatto.

 

D: Sì, ma ancora non si capisce come sia finito a vivere a Vancouver.

R: Bisogna cominciare dagli anni ’60, quando ero a Toronto. C’ero arrivato da una minuscola cittadina della Virginia, duemila abitanti scarsi, dove sono nato. Non volevo fare il soldato, così passare il confine. Però non mi hanno mai bollato come disertore. È strano: deve essere successo qualcosa che ha a che fare con la burocrazia della polizia, perché tutti sapevano perfettamente dove ero, ma nessuno mi è venuto mai a cercare. Toronto era un posto buffo, pieno di disertori arrivati un po’ da tutto il mondo. Il bello è che io non c’ero andato per viverci, ma solo per un weekend: sa quelle cose che si fanno da teen-ager? Vado per un weekend e se mi piace ci resto per un paio d’anni.

 

D: E quanto ci è rimasto?

R: Fino al 1971. Viaggiando un po’ ogni tanto, in America e in Europa, dove sono andato con Deborah: quando siamo tornati eravamo sposati. E siamo venuti a vivere qui, perché lei era di Vancouver e qui vivevano i suoi genitori. Buffo, vero?

 

D: Che cosa?

R: Non c’è mai nessuno nato veramente a Vancouver, così come non c’è mai nessuno nato veramente a Los Angeles. Nessuno, salvo mia moglie. Lei era di Vancouver, doveva laurearsi e cominciare a insegnare inglese all’università.

 

D: Quando ha deciso di cominciare a scrivere e perché?

R: Gliel’ho detto: mia moglie lavorava e io passavo tutto il giorno in casa a far nulla e ad occuparmi del nostro primo figlio, che oggi ha undici anni. Per ingannare il tempo mi ero già laureato in letteratura inglese. Per lo stesso motivo scrissi la mia prima storia: si intitolava Fragments of Hologram Worlds. Non aveva davvero molto a che fare con i computer. Le storie erano cronache, come registrazioni dalle memorie di un altro secolo. Devo fare una distinzione: penso che il cambiamento sia avvenuto quando il computer è divenuto la clessidra dei tempi moderni. Da allora non è più possibile immaginare un mondo senza telematica. In fondo, noi abbiamo sperimentato qualcosa di assolutamente inconcepibile prima, per mio nonno ad esempio, e sappiamo che è accaduto. La differenza fra fiction e realtà, è proprio questa: la realtà non è obbligata ad essere plausibile, la realtà semplicemente accade. Pensi che cosa succederebbe se qualcuno dal 1952 avesse potuto telefonare a un cittadino americano del 1985. “Chi è il nostro presidente?” “Ronald Reagan” “Chi?! L’attore? Ma non può essere, non può accadere…”.

 

D: Un critico velenoso ha detto che Dick, Ballard e Brunner hanno scritto dei suoi stessi temi, molti anni prima e molto meglio. Che ne pensa?

R: Brunnere e Dick… non penso mi abbiano così tanto influenzato. Semmai è stato Bester a influenzarmi, coi suoi primi scritti. Ma Ballard… sì certo. Sono orgoglioso di essere paragonato a lui. Quando ho cominciato a scrivere, l’obiettivo non era certo di vendere un mucchio di libri, ma di diventare una specie di “Ballard americano”. E un giorno di essere scoperto e tradotto in Europa. Ma se devo essere sincero, le mie radici non vanno ricercate nella fantascienza. Sì, quando ero nel mio paese in Virginia, il mio mondo erano i paperback di fantascienza comprati all’edicola. Avevo tredici anni e leggevo Heinlein, Bradbury, Sturgeon. L’idea di quello che sarebbero stati gli anni ’60 me la sono fatta con la fantascienza. Ma poi, quando ho ricominciato ad interessarmene, avevo ormai trent’anni. E ho trovato che era completamente cambiata. Ma non direi in meglio. Una convenzione ha sempre voluto che la fantascienza si occupasse del futuro. Ma io non l’ho mai pensata così. Io stesso non scrivo di futuro, ma semplicemente della realtà contemporanea. Solo che è così complessa che per farlo uso i trucchi della fantascienza. Comunque leggendo Heinlein e i suoi soci tu ti facevi un’idea chiara degli anni ’50. Leggendo la New Wave tu ti facevi un’idea chiara dei ’60. Ma dopo? C’è stato come un salto, una frattura, comune a molti altri generi della cultura pop. Insomma, per farla breve, mi sembra che solo ora si scriva sugli anni ’80, così come si ascolti musica degli anni ’80.

 

D: Ed eccoci al Cyberpunk. Lei è stato definito il re dei Cyberpunk. Solo un’etichetta?

R: È semplicemente idiota. All’inizio, le prime volte che lo sentivo, mi arrabbiavo. Ora ci ho fatto il callo, ma vorrei cancellare la parola “tre” e la parola “cyberpunk”, che pure è entrata nel linguaggio comune. Sa che sul New York Times sono stati definiti Cyberpunk, certi che usavano il computer per furti e spionaggio? La mia decisione di fare qualcosa di diverso, nasce anche da questo punto non voglio che la gente dica: un nuovo romanzo di Gibson? Ah, deve essere un altro romanzo Cyberpunk. Non voglio pensare a me come una macchina che fa le frittelle, impegnata tra qualche anno a sfornare Cyberpunk n° 15.

 

D: Cos’è, un’abiura? Non fa più parte del movimento?

R: Ecco una domanda che ora è diventata importante, perché con successo la gente ci vede come una sorta di movimento letterario. Non penso sia mai stato un vero movimento, diciamo piuttosto una tendenza. Penso che lo potrei spiegare meglio se parlassi francese, perché i francesi hanno termini e una storia letteraria adatti a spiegare la situazione di un gruppo di gente diversa che tende nella stessa direzione contemporaneamente. È stata una vera e propria coincidenza storica, non predeterminata da incontri o manifesti. Quello delle scrittrici femministe negli anni ’60 era un vero movimento, più politico e più di coscienza dei Cyberpunk.

 

D: Fra i suoi colleghi attuali chi sente più vicino?

R: Bruce Sterling che è lo scrittore che usa più idea per ogni pagina. Samuel Delaney che ha influenzato tutti gli scrittori di fantascienza della mia generazione. Greg Bear, che pure scrive fantascienza più classica della mia.

 

D: A proposito di influenze e generazioni: nella sua scrittura c’è anche molto hard boiled, western, e perfino un po’ di rock e di fumetti…

R: Certo. Qualcuno mi ha addirittura paragonato a Chandler, ma per quanto io lo consideri un genio, trovo più somiglianze tra il mio lavoro e quello di John Le Carrè: per esempio, amiamo entrambi usare gli stessi personaggi in diverse storie. Di Chandler, mi ha influenzato moltissimo Il lungo addio, ma come l’ho visto al cinema. Nella scena finale del cimitero c’è quell’atmosfera che io voglio sempre ricreare nelle mie storie. Direi che è questo il mio cult movie più che Robocop o Mad Max o Max Headrom o Brazil, sempre citati come riferimenti del Cyberpunk sullo schermo. Per quel che riguarda i fumetti, più che a Robert Crumb e alla cultura underground degli anni ’60 mi sono rivolto alle art graphic novel giapponesi. Il personaggio di Molly, la guardia del corpo di Neuromancer, viene senza dubbio un po’ da lì, ha lo stesso fascino sensuale e la stessa voluta distanza dei sexy robot.

 

D: Ecco un altro punto che la differenzia dalla fantascienza tradizionale: il sesso.

R: Negli anni ’60, gli scrittori erano poco interessati a parlarne perché nelle storie poteva essere solo come era anche nella realtà. Non si riusciva a immaginare un erotismo diverso. Adesso abbiamo già sott’occhio la differenza. Gli stimoli erotici, come le paure ci vengono da altre immagini: dallo spazio, dalle catastrofi, sì anche dai computer. E i mezzi a nostra disposizione offrono possibilità diverse. Solo tre anni fa chi poteva immaginarsi il boom del sesso al telefono e che oggi è pubblicizzato perfino in televisione? In un racconto di La notte che bruciammo Chrome parlo di sesso neuroelettronico. Il concetto base è questa lacerazione, già esistente, tra voler incontrare qualcuno e voler restare soli.

 

D: Com’è andata la sua esperienza cinematografica?Lei fa parte dell’esercito degli scrittori che odiano Hollywoodo che l’amano?

R: La frase che preferisco è “Le colline di Hollywood sono fatte delle ossa degli sceneggiatori”. Economicamente parlando è stata una manna: per i diritti di La notte che bruciammo Chrome mi hanno pagato 30.000 $; per quelli di Neuromancer centomila. Per scrivere Alien III invece preferisco non rivelare cifre.

 

D: Ma quando vedremo uno di questi film?

R: Questo è un altro paio di maniche. Ho venduto i diritti per quattro film, qualcuno più di una volta. La notte che bruciamo Chrome, per esempio, era stato opzionato dal gruppo che stampa Heavy metal, il giornale a fumetti, e anche il National Lampoon. Volevano fare un film d’animazione. Da allora credo ci siano state dodici sceneggiature diverse. Ora ci sarà la mia, la tredicesima, perché i diritti del film sono passati alla Carolco, la casa produttrice che ha fatto tutti i film di Rambo, e vogliono fare una pellicola con attori veri. Neuromancer, invece, è nelle mani della Cabana Boy Productions. Vogliono tirarne fuori un film che costa circa 25 milioni di dollari. Logico che ci vadano con i piedi di piombo. New Rose Hotel dovrebbe cominciare fra poco. La regista sarà Katherine Bigelow, la stessa di quel bel film di vampiri moderni che era Il buio s’avvicina. La sceneggiatura l’ho scritta io, insieme a John Shirley. Non dovrebbe essere un film di fantascienza, almeno nel senso tradizionale della parola. Rispetto al racconto, non c’è più l’idea che l’azione sia ambientata nel futuro. Quello che è indispensabile, invece, è girarlo nel centro di Tokyo. Una Tokyo vera, spero, non ricostruita come fosse Blade Runner. Poi c’è Johnny Mnemonic. L’ha appena opzionato un pittore-scultore di New York che fa anche video rock per la stazione Mtv. Ma ancora non mi ha chiesto di scrivere trattamento o sceneggiatura e spero che non lo faccia, perché vorrei occuparmi d’altro.

 

D: E Alien III?

R: Ci ho lavorato tre mesi. Poi è arrivato lo sciopero degli sceneggiatori di Hollywood e quando è finito erano cambiate un sacco di cose. Il regista non sarebbe più stato Ridley Scott, per il quale avevo lavorato, ma probabilmente un giovane finlandese che si è fatto conoscere con uno dei film della serie Nightmare on Elm Street. E probabilmente la mia sceneggiatura, e che non era neanche la prima, sarà riscritta ancora da qualcun altro. Ecco come Hollywood: devi usare sempre il condizionale o il futuro.

 

D: Ma complessivamente è stata un’esperienza positiva o negativa?

R: imparare a scrivere una sceneggiatura è stata una cosa nuova e quindi vitale, interessante. Ma non credo mi piacerebbe ripeterla molte volte. È un procedimento così lungo, è un business certo, ma un business troppo lento.

 


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