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Anna Imhof. Faust

Chiara Righi27 Marzo 2018

Comunicato stampa del padiglione tedesco, vincitore del leone d’oro, biennale di Venezia 2017

 

Uno spazio, una casa, un padiglione, un’istituzione, uno stato. Il pavimento e le pareti in vetro penetrano lo spazio in maniera fluida, cristallina e intensa, come avviene nei centri del potere e del denaro. Spazi assoggettati a dei confini, ma che rivelano ogni cosa rendendola visibile e controllabile. Il pavimento rialzato solleva i corpi degli interpreti della performance in Faust (Pugno) e trasforma le proporzioni dello spazio. Sotto, sopra, accanto a noi ci sono i corpi quale fenomeno singolo e collettivo. In posizione rialzata o rannicchiati i performer si muovono attraverso, sotto e sopra il padiglione. Se ne stanno in piedi su piedistalli in vetro oppure accovacciati come fossero sospesi alle pareti degli spazi; corpo, scultura e, al contempo, merce. All’improvviso ci troviamo in una costruzione di potere e impotenza, arbitrio e autorità, resistenza e libertà. Fuori, nel proprio territorio, i cani sorvegliano la casa.

Il grido si spegne sotto il colpo protratto della propria mano. Il presunto abbraccio impietrisce nella silenziosa lotta delle forze tese. Sordo si smorza il pugno (faust) sul petto e lascia che il braccio rimbalzi meccanicamente. Premuti contro il vetro, i corpi si deformano fino a sembrare un irriconoscibile ammasso di carne. Autarchica e silenziosa, la mano soddisfa il proprio sesso. I corpi degli interpreti sono ridotti alla nuda vita. Si possono analizzare sulla scorta della loro economia sessuale. La masturbazione quale regressione e resistenza, quale morte della sessualità e, al contempo, quale immagine di una sessualità che serve solamente al consumo visivo. Il piacere non nasce nell’atto sessuale, bensì nell’atto del vedere ed essere visti. Cupe grida testimoniano il dolore per il crescente svanire della vita, per la zombizzazione del corpo capitalizzato. Pare dissolversi il confine tra soggetto capitalizzato e oggetto capitalizzato. Ma come agisce il potere quando si stacca dai soggetti e di essi si fa oggetto? “Il potere non ha mai saputo diffondersi così rapidamente nel corpo sociale e non è mai stato così difficile da fissare” (Paul B. Preciado). L’essenza del capitalismo è il consumismo sfrenato, la distruzione dei corpi.

La trasparenza del vetro consente allo sguardo sezionante del fruitore di andare verso gli interpreti della performance e poi tornare indietro; la struttura fredda e simmetrica permette un’osservazione immediata e anche un controllo diretto. Il vetro divisore crea distanza e auto percezione, un consapevolizzarsi dell’osservazione. Gli sguardi s’incontrano, ma non nasce una comunicazione. I performer scorgono qualcuno, ma non lo riconoscono. Si è nel mezzo di atti performativi, ma non si sarà mai parte di essi. Gli interpreti fanno la loro comparsa secondo il gender, in maniera individuale e propria, ma, al contempo, stereotipata. I momenti individuali e i gesti del singolo sono in contraddizione con i movimenti uniformi e guidati da messaggi testuali, che ricordano i codici sociali sui quali non si riflette, ma che si ripetono in un esercizio incessante. Così questi corpi ammaestrati e fragili sembrano un materiale permeato da strutture di potere invisibili. Sono soggetti in lotta permanente con la loro oggettivazione. Ai bio-tecno-corpi è inerente la comunicazione mediale. I performer sono consapevoli che i loro gesti non sono fini a se stessi, ma che esistono soltanto nella loro medialità. Sembrano perennemente trasformati in immagini consumabili; vogliono diventare immagine, merce digitale. In un’epoca fortemente caratterizzata dalla medialità, le immagini non solo ritraggono la nostra realtà, ma le creano.

Gli attuali corpi biopolitici non sono più una superficie bidimensionale in cui s’imprimono il potere, la legge, il controllo e la punizione, bensì un fitto entroterra in cui si svolge la vita, oltre che il controllo politico, in forma di scambio e comunicazione. Emerge un nuovo soggetto: ormonale, mediale, fortemente collegato in Rete. La bellezza dei corpi che vediamo e presumiamo auto-ottimizzati è condizionata da pubblicità e immagine del prodotto alle quali siamo sempre esposti. Non è insita nello sguardo di chi osserva, ma è frutto dello sfruttamento perfezionato, degli algoritmi. Create appositamente per le relative voci interpreti, le composizioni risuonano, dapprima isolate, poi si sommano sempre più alla comunione tecnologica dei cellulari fino a diventare un coro impressionante e, al contempo, solipsistico. Nella formazione del gruppo continua a sussistere un’individualità senza meta. Anche se cantano insieme, cantano l’Io.

I cani nel canile, il padrone e il cane, il cane che si tiene al guinzaglio sono testimonianza di un rapporto di potere soggetto ai mutamenti culturali e simbolo di mutevoli costruzioni di natura: non un dualismo separatore di natura e cultura, bensì il canile quale mondo.
In una società in cui la colpa non è una questione legata alla religione, bensì alla responsabilità individuale, in cui la malattia non è un castigo divino, bensì una colpa propria, il corpo si trasforma in capitale e il denaro diventa l’unico parametro. Il corpo è oggetto di consumo del libero mercato. La razionalità del mercato decide allora se il corpo è degno di essere tutelato oppure no, fino alla necropolitica. Nel capitalismo il dominio del denaro è assoluto. Come nel Faust di Goethe, vogliamo vendere qualcosa che neanche c’è. Non c’è l’anima, non ci sono le merci dell’economia finanziaria e, ciononostante, anzi, proprio per questo, il sistema funziona. Soltanto nell’unione in un gruppo di corpi e nell’occupazione dello spazio si può formare la resistenza. Sulle balaustre e sulle recinzioni, sul fondo e sul tetto, gli interpreti della performance occupano lo spazio, la casa, il padiglione, l’istituzione, lo stato.

 

Susanne Pfeffer


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Chiara
Punk di formazione, da sempre si occupa di arte contemporanea e controculture.

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